Chi lascia la propria vita la troverà

di Sara Nevoso

Cara Costanza,

che pasticcio.

Quando ci siamo addormentati così profondamente? Perché abbiamo ignorato le sveglie che hanno cominciato a suonare tempo fa’?

In un’epoca storica difficile (forse come tutte o forse un po’ di più), così piena di sfide e di drammatiche realtà, lo scontro è sulla bellezza della vita, sul diritto a nascere, sull’accettare che amore ed esistenza siano indissolubilmente legati tra loro, sulla certezza che, comunque sia, ne valga la pena.

Da quando il “perché tu vali” si è trasformato in “perché tu vali più di chiunque altro”, anche più dei tuoi figli, della tua famiglia, dei tuoi genitori?

Da quando i bambini sono diventati bambolotti da vestire per mirabolanti servizi fotografici e poi bambolotti da dotare di dispositivi elettronici che li tengano zitti e buoni dentro i loro passeggini ultraleggeri, mentre le nostre anime ultrapesanti continuano a cercare su un altro schermo immagini, solo immagini, che scorrono veloci sotto i nostri occhi opachi?

Da quando abbiamo smesso di raccontare le favole ai nostri figli? Perché abbiamo preferito raccontargli che il lieto fine non esiste, che nulla è per sempre, che Cenerentola e Biancaneve sono da superare e i principi azzurri non sono niente di speciale.

Da quando abbiamo deciso di non provarci nemmeno a dirgli che il sesso senza l’amore, senza un progetto, senza il discernimento, è solo la soddisfazione di un istinto, di una pulsione effimera; da quando abbiamo deciso che raccontargli che amore e sesso insieme sono esplosivi perché possono creare vita, fosse banale, fuori tempo, inutile?

Da quando abbiamo smesso di fare i genitori, gli insegnanti? Perché ci stanchiamo così presto di dialogare con i nostri figli? Perché li consideriamo spesso casi persi? Perché li abbiamo confusi così tanto sui nostri ruoli? Così tanto da riuscire a fargli pensare che sei uomo o donna per un accidente e per una costruzione culturale e in fondo niente è definitivo, e la scienza può fare qualsiasi cosa.

Perché sbandierare un orgoglio legato alle proprie preferenze sessuali? Sono quelle che definiscono un essere umano? Il dizionario definisce l’orgoglio come sentimento unilaterale ed eccessivo della propria personalità, che isola l’individuo o ne altera i rapporti sociali, è questo che speriamo per i nostri figli?

Perché non proviamo a dirgli che il mondo ha bisogno di loro proprio così come sono, che le loro vite, i loro tratti, i loro difetti, sono un miracolo, un assurdo, irripetibile miracolo che ci ha riempiti di così tanta felicità che saremo sempre in debito.

Forse perché vogliamo essere eterni giovani, figli di noi stessi, alla ricerca di una felicità che non sappiamo neanche più cosa sia. Forse perché abbiamo cancellato dalle nostre menti il fatto che un Padre ce l’abbiamo; che la vita a disposizione di ciascuno è una e finirà; che siamo quello che abbiamo costruito nelle nostre relazioni; che quello che siamo oggi, qui, ora, è quello che sarà ricordato di noi perché non è vero che abbiamo tutto il tempo del mondo e non è vero che non rischiamo di perderci.

Da quando le mamme hanno cominciato a non fare altro che lamentarsi, a mettere insieme tutte le sofferenze, ad assolutizzare comprensibili momenti di sconforto, a raccontarsi solo le rinunce, le difficoltà di maternità che sembrano condanne e non benedizioni?

Forse da quando hanno messo il lavoro davanti a tutto? Forse da quando hanno cominciato ad invidiare senza accorgersene donne che possono avere tutto: corpi meravigliosi dopo le gravidanze, vacanze rilassanti nonostante il pianto dei figli neonati, mariti presenti disposti a regalare un diamante per ogni piccola crisi, tate, case dove perdersi quando si vuole con tutte le proprie forze stare da sole, mezzi di trasporto per ogni spostamento, scarpe e borse di tutte le sfumature?

Dove sono gli uomini pronti a sostenere le donne, a leggere nei loro cuori e dire loro: “io sono con te e quindi andrà tutto bene”, pronti a promettere felicità, fiducia, amore per sempre, coraggio, magari senza cambiare pannolini ma disposti a donare se stessi per custodire le loro famiglie?

Forse li abbiamo spaventati, ricacciati indietro come un esercito di barbari, retrogradi e maschilisti; abbiamo cancellato il loro ruolo da un gioco delle parti che senza regole non è affatto divertente.

Da quando mamme di meravigliosi bimbi sentono il dovere di battersi per il diritto all’aborto? Come può una madre sponsorizzare la falsità su un tema così alto? Perché arrivare a svilire, cercare di annullare quel grumo di cellule che era proprio tuo figlio?

Il punto non è se a dieci settimane al microscopio possiamo vedere un minuscolo bimbetto già formato o un insieme di cellule simili al cotone.

Un figlio è un momento.

Il momento del concepimento attiva lo sforzo universale e senza tempo del formare una nuova vita: tenace, testarda, forte, che da quell’istante lotterà per venire alla luce senza considerare se quel momento è stato romantico o terribile o distratto.

Ma è una vita indifesa.

Perché non consideriamo che spesso l’aborto nasce da un problema sociale, nasce dalla distribuzione della ricchezza così squilibrata da non riuscire neanche più ad analizzarla.

Perché facciamo finta che nella maggior parte dei casi il desiderio di abortire non nasce nel cuore distrutto di una donna vittima di violenza, ma nel cuore confuso di una giovane donna che ha regalato se stessa alla persona sbagliata, o nel cuore disperato di una donna che ha già dei figli che non riesce nemmeno a vestire per l’inverno, o nel cuore impermeabile di una donna a cui è stato ripetuto: “non preoccuparti, va bene così, era tuo diritto divertirti, il corpo è tuo, è tuo diritto uccidere la vita imprudente che si è attaccata al tuo ventre”?

Da dove nasce questa rabbia dei giovani quando non vogliono vedere toccato il diritto ad annullare l’esistenza?

Forse gliel’abbiamo detto noi che la vita è senza senso, è un passaggio da compiere distratti da più divertimenti possibili, sguardo basso perché in cielo non c’è niente e nessuno, gettare la spugna quando le cose si mettono male, magari farla finita prima del tempo quando la sofferenza è troppa, quando ne abbiamo abbastanza.

Ma perché siamo arrivati ad averne abbastanza di vivere?

Dobbiamo rifletterci e dobbiamo rovesciare la prospettiva, perché se c’è una cosa di cui dovremmo essere certi in quanto cattolici è che siamo sempre in tempo per far vincere il Bene.

Abitavo davanti ad un ospedale e i giorni in cui vedevo uscire una mamma con il suo bambino mi fermavo ad osservare quello sguardo stanco e potente, così fiero, così tenero, così proteso verso quella vita tanto grande e al tempo stesso tanto piccola da stare rannicchiata tra le sue braccia.

Era sempre lo stesso sguardo: nelle mamme dolcemente sorrette da un uomo pronto a prendersi cura di loro, e nelle mamme sole, alla ricerca di un taxi che potesse accompagnarle a casa.

E’ lo sguardo che sicuramente avevo io quando sono nati i miei bambini: nasceva dalla sensazione di aver fatto una cosa assurdamente grande: dare la vita.

E’ lo sguardo che ha ogni madre adottiva quando porta a casa un piccolo che nascerà una seconda volta, dimostrando che non è nato per errore, ma per grazia, come tutti.

Dare la vita. E’ questo forse il nodo del problema. Non vogliamo più dare la nostra vita per nessuno, perché è nostra e basta, e non ci crediamo che spenderla per gli altri la renderà così piena di senso e di gioia che non ci ricorderemo neppure delle notti in bianco, della stanchezza che ti abbatte, dell’ansia che ti prende ad ogni colpo di tosse.

Chi lascia la propria vita la troverà.

Ho sempre pensato tanto a questa frase di Gesù. E’ tra quelle che sembrano “troppo”, quelle che ti fanno dire: “non ce la farò mai, ma dove voglio andare?”, e quindi è carica di verità.

Troveremo le nostre vite quando le metteremo al palo, quando le lasceremo per gli altri, per i nostri figli, per le persone che ci amano e per quelli che non ci amano, per quelli che ancora non conosciamo e che incroceremo sulle nostre strade se avremo gli occhi e il cuore aperti.

Perché ognuno di noi vale tantissimo, ma riflesso negli occhi di un altro vale infinitamente di più.