Humanae Vitae, l’attacco finale?

Siccome alcune persone si sono scandalizzate di quello che ho scritto ieri, in merito a un vescovo che ha autorizzato una persona con una storia molto particolare a fare la comunione, pur essendo divorziata e risposata, vorrei tornarci sopra, ripubblicando un meraviglioso intervento che scrisse per noi Flora Gualdani, in risposta a delle sconcertanti affermazioni del professor Chiodi sulla contraccezione.

Se non sapete chi sia Flora cercate notizie su di lei, per me è una vera santa, ha più santità lei in un’unghia di quella che riuscirei a raggiungere io in una vita. È una donna rigorosa e dolcissima, semplice e intelligentissima, intraprendente ma totalmente consegnata al Signore.

Ecco, anche lei racconta che nella sua lunga esperienza di ostetrica e formatrice ai metodi naturali, nella sua vita tutta dedicata all’Humanae Vitae, tra le migliaia di donne che ha seguito, è giunta a consigliare un male minore a 4 o 5 di loro, acconsentendo a che uscissero dalle indicazioni di Humanae Vitae (a una ha permesso che venissero chiuse le tube, a una ha consigliato per un periodo la contraccezione). In meno di un caso su mille. Vi prego, rileggete questo articolo, è un po’ lungo ma ne vale la pena.

Una parte della Chiesa, infatti, sta tentando l’attacco ad Humanae Vitae e a Veritatis Splendor e all’indissolubilità del matrimonio, alla differenza sessuale, prendendo come scusa dei casi limite e una malintesa “misericordia”, che poi è la collaudata tecnica del Partito Radicale: raccontare una storia estrema e commovente, e mostrare quanto soffre quella povera persona per la rigidità di una norma. E poi tana libera tutti.

Invece la Chiesa, come mostra il vescovo cui ho accennato ieri, come mostra questo racconto di Flora di oggi, ha già tutti gli strumenti per accogliere chi fa veramente sul serio, per trovare soluzioni creative e misericordiose per tutti, mantenendo però chiaro l’obiettivo finale, cioè il bene – che è oggettivo e non relativo – senza bisogno di cambiare il Magistero.

La mia impressione, sempre più netta, è che ci sia chi vuole cambiare il Magistero usando questa leva della compassione, mentre la Chiesa è già materna verso tutti quelli che davvero cercano Dio, senza bisogno di cambiare nulla.

Il caso cui facevo riferimento nel post di ieri era davvero particolare, e se lo conosco il vescovo avrà pregato, digiunato e forse anche pianto per quella donna, così come ha fatto Flora per quelle deroghe che ha concesso. Quindi la scusa della misericordia non regge, non c’è alcun bisogno di cambiare il Magistero.

Il prossimo in agenda, il vero obiettivo dei recenti cambiamenti, pare essere il Magistero sull’omosessualità. D’altra parte è stato il Papa a parlare di lobby lgbt dentro la Chiesa, e certamente la lobby punta a far sì che venga affermata anche dal Catechismo come una possibilità equivalente a quella naturale, perché il Magistero della Chiesa nel mondo è rimasto l’unico ad avere il coraggio di affermare il contrario.

Bene, anzi, male. Cioè: se ci vogliono provare, che ci provino a viso aperto, non adottando la solita tattica vittimistica dell’omofobia che va tanto di moda.

La Chiesa non discrimina nessuno, già ora, e non ha alcun bisogno di cambiare il Magistero. Perché non viene da lei, e non appartiene a nessun altro se non a Cristo.

Costanza Miriano

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Siamo all’attacco finale su Humanae Vitae?

pubblicato il  

 Flora Gualdani è una signora di ottanta anni, una piccola ostetrica figlia di contadini. Dice che la sua pelle è così bella per tutto il liquido amniotico che le è arrivato in faccia in sala parto, mentre le sue donne partorivano. Le sue, perché ogni donna che Flora si è trovata ad accompagnare allo splendore di diventare madre, è diventata un po’ sua figlia. Alcune di loro, magari quella poverissima, la vittima di incesto incinta a undici anni o la donna stuprata, sono state anche tentate dall’aborto. Per poterle accogliere, loro e i loro bambini non cercati, ha costruito delle casette sulla terra ereditata dal padre. Una vita al servizio della vita, ben oltre l’orario di lavoro. E nelle ferie, andava a far partorire le donne dall’altra parte del mondo: nei paesi poveri, per aiutare; in quelli ricchi per imparare. Per poterle raggiungere tutte ha preso anche il brevetto da elicotterista, e si è iscritta a medicina.
Più avanti negli anni, ha capito che l’emergenza era la formazione. Ha studiato bioetica e i metodi naturali con i Billings, Lejeune, la Poltawska. Al termine dei corsi san Giovanni Paolo II li riceveva e li ascoltava, questi mostri sacri, e la piccola ostetrica bruna con loro. Ha portato la regolazione naturale della fertilità ad Arezzo e continua a insegnarla a coppie su coppie. Insomma, sull’Humanae Vitae ha giocato la vita. Lei che ha scelto di non generare nella carne, è madre di una moltitudine. Servono i calli alle ginocchia per pregare, quelli alle mani per servire, mi confida.
Ha scritto una appassionata, informatissima, agguerritissima difesa dell’enciclica di Paolo VI, difesa dai recenti attacchi che fingono di non toccare la dottrina per svuotarla dal di dentro, imbalsamandola, dice lei, facendole perdere lo splendore della verità e della bellezza. E’ un po’ lunga, magari la stampate e la leggete a rate, piano piano. Ma ne vale veramente la pena: è uno spettacolo vedere la passione, la sapienza e la certezza con cui una piccola donna senza dottorati ma con l’autorità che viene da una vita spesa tutta, confuta punto su punto don Chiodi, ammonendolo perché non usi dei casi limite per aprire il foro nella diga, e privare troppe coppie di tanta bellezza.
Nel frattempo, grazie, continuate a scrivere. Grazie, grazie, grazie. Pubblicheremo al più presto qualche estratto delle vostre bellissime lettere. Ogni volta che il popolo dei piccoli si risveglia e si mette in piedi, succedono miracoli.
C.M.
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La norma e la scienza, la tecnologia e la coscienza. Riflessioni a margine della lezione di Maurizio Chiodi sull’Humanae vitae.

di Flora Gualdani

Di fronte alle polemiche sollevate dalla relazione tenuta lo scorso dicembre dal prof. Maurizio Chiodi alla Pontificia Università Gregoriana sulla questione dell’Humanae vitae, sento il dovere di intervenire pubblicamente per dare al dibattito un mio contributo di chiarezza. Lo faccio dalla mia piccola postazione ostetrica dove ho maturato un’esperienza professionale e pastorale lunga ormai oltre mezzo secolo. Sul campo della “procreazione responsabile” penso di aver qualcosa da dire alla mia amata Chiesa cattolica, poiché è uno degli argomenti su cui ho consumato tutta la mia vita. Intervengo come persona preparata ma pure come battezzata. La nostra fede ci insegna che in certe situazioni è necessario non soltanto prendere la parola ma anche alzare la voce (Is 58,1).

L’ambulatorio ostetrico è una specie di confessionale più frequentato di quello dei sacerdoti e certe cose le ho capite ascoltando la vita concreta di alcune migliaia di donne che ho assistito, non soltanto qui nel nostro occidente benestante, ma negli angoli più poveri della terra e in mezzo alle guerre. Imbarcarsi in questo particolare servizio significa navigare tra due derive purtroppo radicate nel mondo ecclesiale: l’angelismo ed il relativismo. Entrambe lontane dalla via maestra, cioè dall’autentico magistero cattolico. L’angelismo si trova in certe comunità e sacerdoti che considerano peccato di egoismo anche l’uso dei metodi naturali. Ho conosciuto coppie con diverse gravidanze ravvicinate, faticosamente subite perché senza alcun discernimento per distanziarle (distanziarle, non rifiutarle senza motivo), e che poi – sfiancate – sono entrate in crisi con la sessualità, mettendo pericolosamente a rischio l’equilibrio coniugale. E’ l’equivoco sulla fecondità ad oltranza, denunciato sia da san Giovanni Paolo II (Angelus del 17.7.1994) sia da Francesco (Intervista nell’aereo di ritorno dalle Filippine, 19.1.2015): diverso lo stile ma stessa denuncia. Nelle mie lezioni spiego che Dio non ci ha fatto con le ali ma con i genitali. Al n. 31 di Humanae vitae la Chiesa ci insegna che «la vera felicità» si trova nel rispettare le leggi sapienti inscritte da Dio nella nostra natura, che noi dobbiamo osservare usando non solo «l’amore» ma anche «l’intelligenza». E ricordo che la Madonna stessa, prima di diventare madre, ha usato l’intelligenza: davanti all’annuncio dell’angelo lei ragionò e pose domande. Ottenute le spiegazioni, fece il balzo della fede.

I COSIDDETTI “CASI LIMITE” E LE ECCEZIONI CHE CONFERMANO LA REGOLA.

L’apertura alla vita è vocazione della coppia. E una famiglia numerosa è auspicabile, sta scritto anche nella Sacra Scrittura. Ma la santità dei coniugi non risiede nel numero di figli (come non sta di per sé nell’uso dei metodi naturali). Il concetto di “procreazione responsabile” non può prescrivere il numero giusto di figli. Ogni storia è a sé e, per ciascuno, Dio ha un progetto personalizzato. A volte tre figli potrebbero essere sinonimo di egoismo mentre in certi casi anche un figlio può essere troppo. Perché l’eroismo non è obbligatorio per la santità. E’ vero quindi che in alcune circostanze la paternità e maternità “responsabile” richiedono effettivamente di evitare una gravidanza. E vengo quindi alla riflessione clamorosa di don Chiodi, che condivido nel punto di partenza ma non nel proseguo.

In cinquant’anni di esperienza, di fronte alle migliaia di donne che ho seguito, si contano nelle dita di una sola mano i casi in cui sono giunta a consigliare un “male minore”. In quei 4-5 casi c’è la donna partoriente che entrò in sala operatoria e poco dopo scoprimmo che il suo utero era come il velo di una cipolla. Già era un mezzo miracolo che fosse arrivata viva fino a quel punto. Conoscevo la sua storia e mi presi la responsabilità di dire ai medici di chiuderle le tube. Farla uscire dalla sala operatoria con le tube pervie sarebbe stato un comportamento irresponsabile. Nella Bibbia c’è scritto che l’uomo non deve sfidare Dio.

Oppure il caso di una gravissima malattia in cui gli interventi chirurgici e la pesante terapia oncologica cui era sottoposta la sposa non avrebbero consentito a quella coppia di usare in tranquillità i metodi naturali. L’alternativa (angelica) era la completa astinenza, contraria alla natura del matrimonio perché avrebbe amputato ai coniugi la dimensione unitiva del loro amore incarnato, caricandoli nel loro calvario di un’ennesima croce, disumana. L’altra strada era quella di “affidarsi a Dio” per accogliere tutto ciò che sarebbe arrivato, senza nessun ragionevole accorgimento. Spiegai che, avendo peraltro già altri figli, la loro “apertura alla vita” significava rispettare anzitutto la vita di chi già esiste in famiglia, nella consapevolezza che andare incontro ad una gravidanza con quel quadro clinico avrebbe esposto al rischio di morte sia la madre che la nuova creatura (oltre alle probabili gravissime malformazioni).

Dal punto di vista morale, una cosa è scoprirsi gravemente malati quando si ha già un bambino in grembo: accogliere quel bambino a costo della propria vita, rinunciando a curarsi, è un gesto eroico che hanno fatto alcune madri esemplari, anche giovani sante dei nostri tempi. Ed è proprio con quel gesto folle che una giovane donna, nel 1964, mi interpellò e mi provocò a dare il via a “Casa Betlemme”. Ben altra cosa è scoprirsi gravemente malati senza essere incinta: aprirsi ad una gravidanza in quelle condizioni diventa invece una sfida nei confronti di Dio. In definitiva, nel discernimento di quella drammatica situazione, consigliai loro l’uso del condom per avere rapporti sessuali senza paura, ma con l’invito a mantenere la disciplina della continenza (cioè della castità), suggerendogli di viverla comunque mensilmente in alcuni giorni.

Ciò che non condivido è che dall’esistenza di alcuni “casi limite” si arrivi a concludere che la contraccezione non appartiene agli atti “intrinsecamente cattivi”. Quelle che ho raccontato le considero semplicemente eccezioni che confermano la regola. Erano scelte che non rappresentavano il bene ma il “male minore” di cui io mi sono assunta la responsabilità davanti a Dio. In quei 4-5 casi ho detto cioè a quelle persone di stare tranquille in coscienza perché avrei chiesto al Padre Eterno di annotare quegli eventuali peccati nel mio libro e non nel loro. Questa è stata la mia personale “soluzione pastorale”.

I “casi limite” sono una materia molto scivolosa, da maneggiare con cura. Basta un piccolo foro e si può arrivare a svuotare una diga intera, sarà soltanto questione di tempo. Pensiamo alla storia dell’aborto: ciò che portò alla legge 194, con il voto dei cattolici, fu anche l’onda emotiva di Seveso e il terrore delle gravissime malformazioni. Voglio ricordare che a Casa Betlemme ho accolto le maternità più difficili che si possano immaginare, storie indicibili: dalle prostitute alla undicenne incinta vittima di incesto. Ma anche in quei famigerati “casi limite” da noi, alla fine, la cultura di morte non ha prevalso. Magari in collaborazione con i servizi sociali e in una rete di solidarietà.

LA “NORMA” CHE CI DISTURBA? E’ LA DISCIPLINA DELLA CASTITÀ.

Quando si parla dell’Humanae vitae e della sua “norma morale” che appare così difficile e oppressiva, una “legge” dura, tanto da finire spesso – si dice – in conflitto con la coscienza e la libertà dei coniugi, secondo me sarebbe opportuno semplificare chiarendo che stiamo parlando della virtù della castità. In materia di limitazione delle nascite, la risposta della Chiesa cattolica, nella sua ininterrotta Tradizione bimillenaria, risiede infatti nel dominio di sé. Una continuità che fu rotta soltanto nel 1930 dagli anglicani nella Conferenza di Lambeth, dietro la pressione del movimento eugenetico rappresentato anche da reverendi esponenti ecclesiali. Papa Pio XI rispose subito a quello strappo il 31 dicembre dello stesso anno firmando l’enciclica Casti connubii. E fu una risposta forte e chiara.

Qui c’è da smontare un altro equivoco sui metodi naturali, che vengono spesso confusi per “contraccezione naturale”. Sul punto san Giovanni Paolo II è stato molto severo come pastore e come pontefice, e ci ha insistito dalle prime catechesi giovanili fino agli ultimi discorsi nei congressi scientifici. I metodi naturali non sono una versione ecologica della contraccezione: sbaglia chi li usasse o li insegnasse come «una variante lecita» di chiusura alla vita (Discorso 14 dicembre 1990). Non si tratta cioè di una bella tecnica per non fare figli, ma di uno stile di vita per la crescita dell’amore, basato su una profonda conoscenza di sè (fertility awareness) e sull’esercizio della castità coniugale (che significa astinenza periodica) nella reciproca fedeltà, in una ragionevole apertura alla vita, lasciando a Dio l’ultima parola. Il discorso naturale-artificiale è quindi eticamente irrilevante: la vera differenza sta nell’esercizio della virtù. Nessun contraccettivo infatti richiede l’esercizio della virtù: «la connessione intrinseca di scienza e virtù morale costituisce l’elemento specifico e moralmente qualificante del ricorso ai metodi naturali» (Discorso 14 dicembre 1990).

La castità però non è fine a sé stessa né toglie qualcosa al piacere sessuale. San Giovanni Paolo II spiegava che educarci alla castità è un passo fondamentale per la maturazione della nostra persona e delle nostre relazioni affettive: il «banco di prova» che ci interpella tutti e che, con il dominio di sé, ci introduce alla maturità dell’amore vero. Il primato della virtù, nel concetto di “procreazione responsabile”, significa quindi che «la tecnica non risolve i problemi etici, semplicemente perché non è in grado di rendere migliore la persona» (Discorso 14 marzo 1988). Se non si capisce questo aspetto basilare, ai metodi naturali togliamo la loro “anima” degradandoli ad una tecnica assurdamente faticosa e poco interessante rispetto ad altre tecniche molto meno complicate, con cui non potrà competere.

In questo cammino servono la disciplina e la Grazia: perché la castità è una virtù che si conquista soltanto mediante la volontà e la preghiera. Ci educa all’umiltà poiché ti mette in ginocchio e ti fa riconoscere la tua fragilità. Ma è parola profetica per la nostra società decadente fatta di melma e di sangue. E’ parola chiave per la fedeltà e la felicità delle famiglie, per l’equilibrio di una vita consacrata, per la salute dei nostri giovani, e per il bene di una persona con tendenza omosessuale. Quindi ha un enorme valore sociale prima che morale. Purtroppo però se ne è banalizzato il significato e non si crede più alla sua praticabilità. L’anno scorso facevo notare al cardinale Caffarra che anche tutto il dibattito infuocato dei recenti Sinodi, se ci pensiamo bene, si ricapitola in fondo sulla grande questione della castità. E’ sempre quello il nodo che viene al pettine, il filo rosso che lega tutto. Sulla comunione ai divorziati si discute sul vivere “come fratello e sorella”. E non si propone l’esigenza della fedeltà al sacramento dopo il tradimento. Idem sulla contraccezione: si vuole aprire alla contraccezione perché si pensa che i coniugi non siano capaci di astinenza periodica cioè di vivere la virtù della castità coniugale con i metodi naturali. E lo stesso per il celibato dei sacerdoti: la questione parte sempre dal rifiuto della castità. E’ una parolina che dà allergia a molti, e purtroppo ho notato che è stata la grande assente nei due sinodi sulla famiglia, la parola latitante. La mia speranza è che venga recuperata al sinodo dei giovani.

In un lungo discorso del 2 marzo 1984, talmente importante da ritrovarlo quasi per intero al n. 103 dell’enciclica Veritatis splendor, san Giovanni Paolo II spiegava che la norma morale insegnata da Humanae Vitae e Familiaris Consortio è «la difesa della verità intera dell’amore coniugale» ovvero «l’originario progetto del Creatore sul matrimonio»: la Chiesa è chiamata cioè, sulla contraccezione, a dare all’uomo la medesima risposta che dette Gesù quando fu interrogato sulla liceità del ripudio della moglie. I pastori, operando «nel nome di Cristo», devono «mostrare agli sposi che quanto è insegnato dalla Chiesa sulla procreazione responsabile non è altro che quell’originario progetto che il Creatore ha impresso nell’umanità dell’uomo e della donna che si sposano, e che il Redentore è venuto a ristabilire». Il discorso, severo e profetico, fotografava con esattezza impressionante il dibattito dei nostri giorni: «la difficoltà vera è che il cuore dell’uomo è abitato dalla concupiscenza: e la concupiscenza spinge la libertà a non acconsentire alle esigenze autentiche dell’amore coniugale. Sarebbe un errore gravissimo concludere da ciò che la norma insegnata dalla Chiesa è in se stessa solo un “ideale” che deve poi essere adattato, proporzionato graduato alle, si dice, concrete possibilità dell’uomo: secondo un “bilanciamento dei vari beni in questione”. Ma quali sono le “concrete possibilità dell’uomo”? E di quale uomo si parla? Dell’uomo dominato dalla concupiscenza o dell’uomo redento da Cristo? Poiché è di questo che si tratta: della realtà della redenzione di Cristo. Cristo ci ha redenti! Ciò significa: Egli ci ha donato la possibilità di realizzare l’intera verità del nostro essere. Egli ha liberato la nostra libertà dal dominio della concupiscenza». San Giovanni Paolo II, in altre parole, ci spiega che il cosiddetto “primato della coscienza” va sottoposto al primato della verità. E che al fondo di tante discussioni teologiche e pastorali forse sta un nostro problema di fede. Se davvero crediamo che Cristo ci ha redenti, allora sappiamo che l’uomo è sempre educabile: «e se l’uomo redento ancora pecca, ciò non è dovuto all’imperfezione, ma alla volontà dell’uomo di sottrarsi alla grazia che sgorga da quell’atto. Il comandamento di Dio è certo proporzionato alle capacità dell’uomo: ma alle capacità dell’uomo a cui è donato lo Spirito Santo […]. La riconciliazione della coscienza umana degli sposi col Dio della Verità e dell’Amore passa attraverso la remissione dei peccati: attraverso l’umile riconoscimento che noi non ci siamo adeguati, per così dire, commisurati alla Verità ed alle sue esigenze e non attraverso l’orgogliosa riduzione della Verità e delle sue esigenze a ciò che noi decidiamo sia vero e buono. La nostra libertà è nell’essere servi della Verità».

Wojtyla, ben consapevole delle difficoltà che le coppie incontrano nel cammino, ci invitava a non confondere la “legge della gradualità” con la “gradualità della legge” (Familiaris consortio n. 34), come se questa norma morale fosse adatta soltanto ad alcune coppie speciali: «la grazia dello Spirito Santo rende possibile ciò che all’uomo, lasciato alle sole sue forze, non è possibile. […] Ogni battezzato, quindi anche gli sposi, è chiamato alla santità, come ha insegnato il Vaticano II – Lumen Gentium 39» (Discorso 17 settembre 1984).

LA NORMA DELL’HUMANAE VITAE NON È BIOLOGISMO: PER CAPIRLO SERVE LO SGUARDO CONTEMPLATIVO SULLA CREAZIONE.

Secondo il professor Chiodi, «l’insistenza del Magistero della Chiesa sui metodi naturali non può essere interpretata come una norma fine a sé stessa, né come una mera osservanza di leggi biologiche poiché la norma punta ad un’antropologia…». Anche su questa affermazione sarei d’accordo. San Giovanni Paolo II, infatti, dedicando ben 129 catechesi alla “teologia del corpo”, ha abbondantemente chiarito che la Chiesa ci insegna «non tanto la fedeltà ad un’impersonale legge naturale quanto al Creatore-persona, sorgente e Signore dell’ordine che si manifesta in tale legge» (Catechesi CXXIV). La norma morale di cui parliamo, cioè, non è di natura biologica ma personalistica, e si fonda sulla «rilettura del linguaggio del corpo nella verità»: gli stessi «ritmi naturali immanenti alle funzioni generative appartengono alla verità oggettiva di quel linguaggio», e noi dobbiamo «tener presente che il corpo parla» (Catechesi CXXV).

In altre parole, di fronte alla fertilità umana non siamo davanti a pure leggi biologiche ma ci troviamo davanti alla maestà e alla sapienza del Creatore, impressa nella nostra natura. Il beato Stensen, vescovo e scienziato meglio noto come Stenone (le cui ricerche hanno dato il nome ad un dotto dell’apparato uditivo), mentre studiava l’anatomia e la fisiologia si metteva addirittura in ginocchio, perché consapevole di incontrare Dio, attraverso “l’opera delle Sue mani” (Salmo 8). A me piace parlare di “sacralità della fisiologia”. La nostra ciclicità femminile è un meccanismo imponente, perfetto e stupendo, fatto di segni e denso di significati. Ha in sé una logica profonda, un Logos che è epifania di un disegno grandioso in cui il linguaggio di Dio si svela anche nel sistema riproduttivo. La ricerca scientifica ha decifrato questo linguaggio e oggi ogni donna è in grado di conoscere, con esattezza e con facilità, quali sono ogni mese i giorni in cui può diventare madre.

La profondità di tutto questo disegno però, diceva san Giovanni Paolo II, si può cogliere soltanto recuperando uno «sguardo contemplativo» davanti alla bellezza della creazione (Evangelium vitae n. 83, Centesimus annus n. 37), ricordandoci che l’uomo è il vertice della creazione: capolavoro in cui la nostra anima immortale è incarnata in un corpo fragile, tessuto dalle mani di Dio che ci ha fatti bene anche dalla cintola in giù, come un prodigio (Salmo138). Usò questo sguardo anche nel predicare gli esercizi a Paolo VI nel 1976, intitolando un capitolo “Il Dio dell’infinita maestà”. Wojtyla, partendo dall’analisi acuta dell’universo, si rifaceva all’itinerarium mentis in Deum di san Bonaventura da Bagnoregio, cioè alla via pulchritudinis. Sul medesimo itinerario leggiamo vent’anni dopo il teologo brasiliano L. Boff e il filosofo vietnamita A. Nguyen Van Si, che in un loro saggio ci invitavano a contemplare la natura e a riconoscerla come un meraviglioso «spettacolo», «un poema ben ordinato». Con lo sguardo contemplativo si apre anche l’enciclica Veritatis splendor ed è lo sguardo fondamentale che, secondo me, manca all’attuale dibattito intorno all’Humanae vitae. Nella mia esperienza, quello sguardo infatti è ciò che aiuta le coppie a superare il fastidio iniziale verso “la norma”, facendole approdare all’ammirazione e alla gratitudine per questo particolare meraviglioso della fertilità. La cosa sarebbe lunga da spiegare, fa parte del nostro specifico impegno pastorale di formazione e sensibilizzazione.

Quanto sia importante questa “conversione dello sguardo” che ci spalanca al mistero della Creazione (Benedetto XVI al Pontificio Consiglio per gli operatori sanitari, 15 novembre 2010) trova conferma sia nella letteratura medica dove oggi si parla di “etica dello stupore” (Evans-Greaves, Journal of Medic Ethics 2001) sia – in fondo – anche in uno dei più illustri e accaniti oppositori dell’Humanae vitae come padre Häring, quando raccontava la sua ammirazione verso «la bellezza del mondo, la gratuità del Creatore». Il celebre teologo spiegava che durante un raduno di cattolici tedeschi, i giovani gli chiesero cosa lui ritenesse essenziale per le persone di qualsiasi età: «risposi: il senso della meraviglia […]. Molti di loro mi pregarono di insistere perché i parroci e i catechisti parlassero del senso della meraviglia» (V. Salvoldi, Una fede si racconta. Colloqui con Padre Häring, Messaggero, Padova 1989, 76-77).

Nel 1960, nel suo magnifico trattato Amore e responsabilità, il vescovo Wojtyla dedicava a simili riflessioni il capitolo “Giustizia verso il Creatore” spiegando che «l’uomo è giusto verso il Dio-Creatore decifrando le leggi del Creatore, riconoscendo con la ragione l’ordine della natura e rispettandolo nelle sue azioni». Come dicevo, suscitare questo atteggiamento di profonda riverenza e adesione verso il progetto originario di Dio sull’uomo, è il compito della Chiesa. Anche Papa Francesco, in apertura del suo pontificato, spiegava che «siamo custodi della Creazione, del disegno di Dio inscritto nella natura» (Omelia per l’inizio del ministero Petrino, 19 marzo 2013) e qualche mese dopo parlava di «amore per tutta la creazione, per la sua armonia», riferendosi alla figura del Santo d’Assisi che ci testimonia «il rispetto per tutto ciò che Dio ha creato e come lo ha creato» (Omelia, Assisi 4 ottobre 2013). Poco tempo fa, denunciando certe colonizzazioni culturali e ideologiche, ha ribadito che pecchiamo contro Dio creatore quando «si vuole cambiare la Creazione come l’ha fatta Lui» (Omelia 21 novembre 2017). “Uomo e donna lo creò”, spiega la Genesi. E, a noi donne, in questo modo preciso Lui ci creò! Con la ciclicità della fertilità, ha voluto consegnare a noi le chiavi della vita, insieme ad una serie di istruzioni. Sant’Atanasio, riflettendo sulla sapienza con cui il Verbo di Dio ha organizzato il mondo riempiendolo di ogni bellezza come un artista, ci ricorda che «è Lui che ha voluto che tutto accada in questo modo» (Discorso contro i pagani).

Tra i neo critici di Humanae vitae si sente dire spesso che l’enciclica è stata scritta in un’altra epoca e quindi andrebbe contestualizzata. Ce lo suggerirebbero anche le due date apposte nel titolo della relazione del professor Chiodi. E’ vero che la storia è cambiata e la società è più complessa. Ma l’uomo non è cambiato. E i peccati sono sempre quelli. Eva ovulava come ovulavo io. Le sapienti leggi iscritte da Dio nella natura e nel cuore dell’uomo non hanno data di scadenza. In definitiva l’antropologia cristiana, fatta di sguardo creaturale ed esercizio della virtù nel rispetto dell’opera di Dio, è un pacchetto completo che non prevede adesioni selettive: non si può essere contrari ad aborto e gender e poi favorevoli alla contraccezione.

LA “TECNOLOGIA” CHE AIUTA LA PROCREAZIONE RESPONSABILE? CONCETTO INSIDIOSO E STRANE DIMENTICANZE.

Altro argomento su cui riflette il professor Chiodi è quello della “tecnologia” applicata alla procreatica. Anche qui condivido il punto di partenza sul fatto che la tecnologia è un modo di agire dell’uomo, ma concludere che «la tecnologia non possa essere rifiutata a priori quando è in gioco la nascita di un bambino» e che in certe situazioni «un metodo artificiale per la regolazione delle nascite potrebbe essere riconosciuto come un atto di responsabilità», ci porta fuori strada cioè fuori dalla sana dottrina.

E’ vero che la téchne è il modo di agire con cui l’uomo lavora sul creato e trasforma anche se stesso. Ma la nostra ragione creativa si deve fermare davanti all’albero della vita: lì, nella trasmissione della vita umana, c’è una precisa “grammatica” scritta da Dio, su cui l’uomo non deve mettere le mani. A meno che voglia abbracciare i “nuovi paradigmi riproduttivi” e arrendersi al mondo nuovo.

La Chiesa quindi non è di per sé contraria a ciò che è artefatto dall’uomo. L’intervento artificiale diventa immorale soltanto quando non rispetta l’opera di Dio e la dignità della persona, oppure quando non serve per riportare a fisiologia la patologia. E’ il caso della contraccezione: un paradosso anzitutto medico perché l’uomo finisce per curare un funzione sana, dato che la fertilità è sinonimo di benessere. Ma è anche un paradosso morale. La psichiatra Wanda Połtawska, in una memorabile lezione all’Istituto Giovanni Paolo II (dove intitolò un capitolo “Santità dell’atto sessuale e orgasmo”), spiegava infatti che l’uomo, «sentendosi come schiacciato dalla forza della sua fecondità», cerca di combatterla e di «correggere ciò che il Creatore ha già creato in modo perfetto». La contraccezione è dunque un «un peccato inutile» poiché in natura esiste già la soluzione cioè i giorni infecondi messi a nostra disposizione, ovvero la nostra capacità di astinenza periodica. Se, come dicevo, recuperiamo lo sguardo contemplativo sull’intera opera di Dio, capiremo che la fertilità è una dimensione che appartiene alla verità della nostra persona: non ci chiede di essere combattuta e fatta fuori ma di essere conosciuta e rispettata nella sua armonia.

In conclusione, nella contraccezione, l’uomo tecnologico cerca di “plasmare” la propria fisiologia: ritenendola inadeguata alle nostre esigenze, s’ingegna a rendere sterile un rapporto sessuale e a spengere la fertilità. Con i metodi naturali usiamo invece tutta la scienza per decifrare e rispettare questo prezioso “particolare” del Disegno di Dio. Ed è l’unica strada dove l’uomo si riconcilia con il suo corpo, la creatura con il suo Creatore, la scienza con la fede e con la morale.

La tecnologia della contraccezione è stato il primo atto con cui l’uomo moderno ha messo mano all’albero della vita. Scardinando la potenza della vita dal gesto sessuale, abbiamo compiuto il primo divorzio da Dio, separando ciò che Lui aveva unito. Ma rappresenta anche il primo divorzio tra i coniugi, perché ne impedisce l’abbraccio totale. E’ come se il marito dicesse alla moglie: “accolgo tutto di te tranne la tua fertilità, che è un problema”.

Quella scissione, come sappiamo, si è poi approfondita in senso opposto con la riproduzione artificiale, andando a spostare il concepimento fuori dal grembo della donna. Nella fecondazione in vitro, infatti, la tecnologia non va ad “assistere” o a ripristinare la fisiologia, ma a “sostituire” l’incontro carnale degli sposi, che diventa un accessorio: il figlio non viene più procreato come frutto di quel gesto coniugale ma prodotto da una equipe, con una procedura incerta nell’efficacia ma sicura nel sacrificio di embrioni. L’equipe di tecnici alla fine consegna un “bimbo in braccio” alla coppia (desiderosa e sofferente), ma lasciandola nella condizione di sterilità. Anche qui la tecnologia, nell’etica cristiana, incontra quindi un limite ben preciso: è cosa buona finché aiuta la natura andando a curare patologie dell’apparato riproduttivo. Penso al prezioso servizio svolto dall’Istituto Scientifico Internazionale Paolo VI (Policlinico Gemelli), specializzato per esempio nella microchirurgia tubarica. Oppure all’analogo approccio portato avanti dalla Naprotechnology. La dignità del concepito e la dignità del matrimonio sono lo spartiacque sulla bontà della tecnologia in materia procreatica.

Per questo, a mio avviso, dire che «la tecnologia non possa essere rifiutata a priori quando è in gioco la nascita di un bambino» è un’affermazione generica e insidiosa. Presta il fianco a tutti coloro che, accusandoci di incomprensione e durezza, fanno pressione sulla Chiesa cattolica affinché – in nome della “apertura alla vita” – sdogani la fecondazione artificiale, normalizzando pure questo comportamento ormai di massa anche tra i cattolici. Le argomentazioni su cui la Chiesa fonda la sua posizione bioetica in materia, troppo spesso poco conosciute, sono scolpite con molta chiarezza in due istruzioni della Congregazione per la Dottrina della Fede: la Dignitas personae (anno 2008) e la Donum vitae, firmata nel 1987 dall’allora Prefetto Ratzinger con la consulenza del prof. Lejeune, Servo di Dio al quale san Giovanni Paolo II nel 1994 affiderà la neonata Accademia per la vita, facendogli redigere lo Statuto.

La sottolineatura di Chiodi sul fatto che ci troviamo nell’era tecnologica, è argomentazione che trova una corrispondenza significativa e secondo me preoccupante: si tratta infatti esattamente del primo messaggio lanciato dalla nuova Pontificia Accademia per la vita la quale, nel 2017, ha esordito annullando un seminario internazionale che era da tempo programmato per celebrare il 30esimo della Donum vitae, e lo ha rimpiazzato con un nuovo seminario intitolato “Accompagnare la vita. Nuove responsabilità nell’era tecnologica”.

Riguardo la presunta bontà della tecnologia contraccettiva come “atto di responsabilità”, c’è un altro aspetto importante che da cinquant’anni continua ad essere stranamente sorvolato. Mi riferisco agli aspetti micro-abortivi insiti (in percentuale più o meno elevata) in tutta la contraccezione ormonale e farmacologica. E’ il tema delle cosiddette fughe ovulatorie, noto già ai tempi del dibattito conciliare, che rende incerto il confine tra aborto e contraccezione. Le evidenze scientifiche pongono problemi etici importanti (R. Puccetti, G. M. Carbone, V. Baldini, Quello che nessuno ti dice sulla contraccezione, ed. Studio Domenicano, Bologna 2012; R. Puccetti, I veleni della contraccezione, ed. Studio Domenicano, Bologna 2013), che furono sottolineati dall’Associazione internazionale dei medici cattolici in un corposo documento pubblicato per il 40esimo dell’enciclica. Una decina d’anni fa anch’io mi permisi di intervenire pubblicamente a sostegno di un farmacista cattolico che, con una lettera al giornale dei vescovi italiani, si poneva scrupoli di coscienza nella prescrizione della più comune pillola anticoncezionale (Avvenire, 22.11.007). 

Inoltre, nelle riflessioni degli ecclesiastici favorevoli ad un’apertura sulla contraccezione, non sento mai parlare della “mentalità contraccettiva” e delle sue conseguenze pratiche: non mi riferisco a discorsi moralistici o trascendenti ma anche qui alla letteratura medica, dove è ormai dimostrato che la contraccezione non previene l’aborto ma ne è l’anticamera e il viatico. Poiché delegare ad un mezzo tecnico la responsabilità dei nostri gesti favorisce un’attitudine mentale all’aborto: quando “il mezzo ha fallito” si è più predisposti a optare per l’aborto come soluzione.

Ulteriore lacuna riguarda i danni che la contraccezione ormonale su larga scala sta creando all’ambiente e all’ecosistema, compromettendo addirittura la delicata fertilità maschile: un allarme che apparve già il 27 gennaio 1997 sul Corriere della Sera a firma del professor Aldo Isidori, andrologo dell’Università La Sapienza («Se l’uomo è sterile è anche colpa delle donne») e venne rilanciato pochi anni fa sempre sulla stampa laica (A. D’Argenzio, Ambiente. Il lato B della pillola, L’Espresso, 2.10.2012). Sono argomenti scomodi e politicamente scorretti, che si meriterebbero un capitolo importante nella grande questione dell’ecologia umana. Dobbiamo invece prendere atto che purtroppo anche l’enciclica Laudato sii ha sorvolato sull’argomento. Io mi permisi di evidenziarli in un piccolo saggio che firmai il 12 aprile 2015 e recapitai a numerosi ecclesiastici come contributo di riflessione per il lavori sinodali (Occidente, procreazione e Islam, ed. ilmiolibro.kataweb.it, 2015).

Stiamo parlando, in fondo, del peccato più vecchio del mondo. Quando l’uomo tenta di correggere il Creatore andando a curare ciò che è sano, alla fine si impantana facendosi del male da solo. Fu l’Espresso anni fa a titolare una copertina “Pillola amica killer”, e ha sollevato un certo clamore la notizia che la pillola «oggi è più rischiosa di ieri» e che l’Europa ha aperto un’inchiesta di fronte alla pioggia di causa contro le multinazionali farmaceutiche (Repubblica, 30.1.2013). Altrettanto clamorosa la notizia che in Francia c’è un boom di interesse riguardo i metodi naturali (Le Monde, 11.8.2014).

Tutto questo per dire che anche la comunità scientifica, osservando i danni del nostro divorzio da Dio, ha iniziato a ripensare e sta lentamente rivalutando la sapienza del Creatore, cioè i benefici del rispetto della fisiologia. Io lo definisco “il cerchio della vita”. Prima si è capito che dobbiamo de-medicalizzare la gravidanza. Cioè che la gestazione non è una malattia. Poi ha capito che dobbiamo de-medicalizzare il parto. Poi si è capito quanto è importante l’allattamento naturale, al seno. L’ultima tappa, che chiude il cerchio della vita, sarà la de-medicalizzazione nella gestione della fertilità. Lo ripeto da anni: il futuro è dei metodi naturali. Ne va della qualità della generazione e della qualità dell’amore, cioè della famiglia. La contraccezione è una proposta vecchia. Se ne sono ormai accorte anche le femministe, che da quella iniziale illusione sono state lentamente espropriate della loro potenza generante.

Eppure c’è una forte corrente di teologi e pastori che si ostina, dopo mezzo secolo, a correre ancora dietro alla contraccezione. Il prof. Puccetti li definisce “regressisti”. Ed è un amaro dispiacere leggere nel quotidiano dei vescovi italiani che la sottoscritta insieme ai tantissimi altri difensori dell’enciclica, con la nostra testimonianza di vita e l’abbondanza di argomentazioni concrete, possiamo finire targati come «i più arcigni difensori di una morale fuori dalla realtà», «fustigatori implacabili dei nostri giorni» (Avvenire, 20.10.2017).

Un alto prelato, poco tempo fa, mi obiettava sull’Humanae vitae che «…del resto la scienza è andata avanti». Certamente. Infatti i moderni metodi naturali si sono perfezionati raggiungendo un’affidabilità scientifica ormai pressoché uguale a quella della pillola anticoncezionale. Così anche la pastorale nel mondo ha fatto enormi progressi sul campo dell’Humanae vitae: san Giovanni Paolo II, dopo ogni congresso internazionale, ci riceveva per incoraggiarci ed essere informato sugli sviluppi sia della scienza che della pastorale. L’esperienza di Madre Teresa nelle bidonville di Calcutta o quella straordinaria nella Cina comunista, dimostrano definitivamente che l’Humanae vitae – se si vuole – è applicabile ad ogni latitudine, comprese le periferie esistenziali. Mentre della contraccezione stanno ormai venendo al pettine i nodi che ho accennato.

Purtroppo però, nella nostra opera pastorale in mezzo alla gente, constatiamo su questi argomenti una disinformazione ancora piuttosto grave e diffusa a tutti i livelli: nelle corsie come nelle sacrestie, dai marciapiedi alle accademie. Sono argomenti su cui urge una capillare opera di misericordia spirituale: istruire gli ignoranti. Perché, lo dico da anni e qui lo ripeto: se sopra la disinformazione ci seminiamo la confusione, alla fine raccoglieremo devastazione. Questo tipo di misericordia è quindi il servizio prioritario che offriamo oggi con l’opera “Casa Betlemme”, associazione pubblica di fedeli voluta e riconosciuta dall’allora nostro vescovo Gualtiero Bassetti.

In conclusione, ai neo critici dell’Humanae vitae secondo me manca da un lato lo sguardo contemplativo davanti alla bellezza e alla sapienza della Creazione, e dall’altro uno sguardo scientifico completo sulla realtà della contraccezione.

SIAMO ALL’ASSALTO FINALE SULL’HUMANAE VITAE? SI, CON LA CHIAVE INTERPRETATIVA.

San Giovanni Paolo II ha precisato più volte che la norma morale dell’Humanae vitae è esigente, ma è forte e chiara, in continuità con la bimillenaria Tradizione della Chiesa. Anche san Pio da Pietrelcina volle pubblicamente ringraziare Paolo VI per la parola «chiara e decisa» detta con quella enciclica, «assistito dallo Spirito Santo e nel nome di Dio», a difesa «dell’eterna verità, che mai si cambia col mutar dei tempi» (L’Osservatore Romano, 29.9.1968). E poiché si tratta di una norma chiara, vuol dire che non va interpretata ma va attuata e vissuta, attingendo alla grazia di Dio di fronte alla nostra fragilità.

E’ una precisazione fondamentale, fatta anzitutto al n. 29 di Familiaris consortio, dove san Giovanni Paolo II definisce quello dell’Humanae vitae «un annuncio veramente profetico, che riafferma e ripropone con chiarezza la dottrina e la norma sempre antiche e sempre nuove della Chiesa sul matrimonio e sulla trasmissione della vita umana». Qualche anno dopo, nel ribadire che «la grazia di Cristo dona ai coniugi la reale capacità di adempiere l’intera “verità” del loro amore coniugale» puntualizzava di nuovo: il problema più grande sta nelle «voci che mettono in dubbio la verità stessa dell’insegnamento della Chiesa». Costoro si assumono «una grave responsabilità» poiché «si pongono in aperto contrasto con la legge di Dio, autenticamente insegnata dalla Chiesa» e «guidano gli sposi in una strada sbagliata». Quanto è insegnato dalla Chiesa sulla contraccezione cioè «non appartiene a materia liberamente disputabile fra teologi. Insegnare il contrario equivale a indurre nell’errore la coscienza morale degli sposi». Parlare di “conflitto di valori o beni” e della necessità di un “bilanciamento”, spiegava il papa, «non è moralmente corretto, e genera solo confusione nelle coscienze degli sposi» (Discorso 5 giugno 1987). L’anno successivo, nel 20esimo dell’enciclica, interviene nuovamente sulla irreformabilità e rivolgendosi ai teologi spiega che quello dell’Humanae vitae è un insegnamento che «appartiene al patrimonio permanente della dottrina morale della Chiesa». L’ininterrotta continuità con cui la Chiesa lo ha riproposto, nasce dalla «difesa della dignità e della verità dell’amore coniugale». I coniugi, prosegue Wojtyla, non vengono aiutati nella loro responsabilità verso l’amore coniugale anche quando «con conseguenze davvero gravi e disgregatrici, la dottrina insegnata dall’Enciclica sia messa in discussione, come talora è avvenuto, anche da parte di alcuni teologi e pastori di anime. Questo atteggiamento, infatti, può indurre il dubbio su un insegnamento che per la Chiesa è certo, oscurando così la percezione di una verità che non può essere discussa. Non è questo un segno di “comprensione pastorale”, ma di incomprensione del vero bene delle persone. La verità non può essere misurata dall’opinione della maggioranza». Questo discorso severo apparve il 14 marzo 1988 su L’Osservatore Romano (con il titolo «I coniugi sono chiamati a vivere l’intera verità della “Humanae vitae”, i pastori ad insegnarla senza metterla in discussione») e provocò una forte reazione di una certa corrente teologica che, guidata ancora una volta da Bernard Häring con l’appoggio dei mass media internazionali, trovò l’adesione di numerosi e influenti teologi e intellettuali mitteleuropei nella firma della “Dichiarazione di Colonia”, un documento di dissenso sottoscritto poi anche da sessantatré teologi italiani.

A me pare che la preoccupazione di san Giovanni Paolo II fosse quella di arginare i tentativi di coloro che, volendo “reinterpretare” la norma dell’enciclica, ne mettevano pericolosamente in dubbio i contenuti per scalzare duemila anni di Tradizione cattolica. Una volta un vescovo, confidandomi le sue obiezioni sull’Humanae vitae, mi disse: «vedrai che tanto quando muore Giovanni Paolo II tutto questo finisce». Riuscii soltanto a balbettare: «Ma Eccellenza, è la dottrina!». Devo dire che, tra tutte, quella fu la mazzata più forte che ho ricevuto. Il tono era delicato e suadente, ma nella sostanza era come se mi avesse detto: hai sprecato inutilmente la tua vita. Uscii da quel colloquio disorientata, stordita. Per rimanere in piedi di fronte a certe coltellate, ti inginocchi in adorazione silenziosa, e poi riparti. Non mi permetto di giudicare le persone, né le autorità teologiche né i pastori né tanto meno un pontefice. Però voglio leggere i fatti. E mi pare che quel vescovo avesse purtroppo ragione. La sua previsione si sbagliava di pochi anni. Alle porte del 50esimo anniversario, l’Humanae vitae è tornata infatti di nuovo sotto attacco. Ma stavolta non è più un assalto frontale. Ci sono ancora alcuni pastori e teologi che ne invocano la rottamazione senza mezzi termini. In questo assalto – che credo sarà l’ultimo – la strategia messa in campo è invece molto più sottile e si presenta proprio come una raffinata e imponente operazione di reinterpretazione in chiave pastorale.

Lo scorso luglio, dopo un’iniziale smentita, abbiamo appreso che in Vaticano è stato costituito un gruppo di studio con il compito di riaprire i faldoni che erano sul tavolo di Paolo VI. Questa commissione dovrà capire cioè, come sia stato possibile che il beato Paolo VI abbia disatteso alla fine il famoso “parere di maggioranza” favorevole alla contraccezione. Probabilmente si indagherà su quali “pressioni” possa aver subito nella sua decisione solitaria. Mentre san Giovanni Paolo II ha usato il suo pontificato per approfondire le ragioni dell’Humanae vitae nel suo limpido “no” alla contraccezione, la nuova commissione vaticana ha dichiarato invece che, grazie a questo lavoro di ricerca, «sarà possibile mettere da parte molte letture parziali del testo» (L. Bertocchi, Humanae vitae sotto la scure del discernimento, La Nuova Bussola quotidiana, 27.07.2017).

Secondo tassello. Qualche mese fa il quotidiano dei vescovi italiani ci ha informato che, nel panorama degli eventi per il 50esimo dell’enciclica, «l’iniziativa culturale di maggior spessore è senza dubbio» il corso organizzato dalla Facoltà di Scienze sociali e dal Dipartimento di teologia morale della Pontificia Università Gregoriana. Nel presentare questo ciclo mensile di incontri, che durerà otto mesi fino al maggio 2018, viene spiegato che la questione di fondo è capire «come mettere in sintonia il quadro normativo di Humanae vitae con la tensione al rinnovamento alla luce del primato della coscienza che si respira in Amoris laetitia». Si tratta cioè di «approfondire e ipotizzare nuovi percorsi». In pratica il tema resta quello della contraccezione: «dal divieto alle nuove proposte?». Coloro che considerassero ciò che ha scritto Paolo VI sui metodi naturali «un obbligo da perpetuare “nei secoli dei secoli”» si sbagliano, prosegue Avvenire, perché sono «tutt’altro che principi cristallizzati in eterno», come «vorrebbero far credere i più arcigni difensori di una morale fuori dalla realtà». Non si tratta di rottamare l’enciclica, precisa l’articolo, ma finalmente di «risanare le divisioni che, proprio sul punto hanno segnato e ancora segnano il mondo cattolico, alla luce di un’operazione di verità e di saggezza», superando la vecchia la polarizzazione tra favorevoli e contrari alla pillola. L’enciclica, in sintesi, va calata nel «naturale dinamismo collegato al cammino dell’uomo incarnato nella storia»: non se ne nega l’impianto dottrinale ma va in qualche modo «sviluppata, fatta crescere» (L. Moia, Cinquant’anni dopo. L’Humanae vitae di Paolo VI: Chiesa, amore e vita, come si cambia?, Avvenire, 20.10.2017).

Durante il secondo incontro di questo corso, il professor Chiodi, nella relazione che ha suscitato tanto clamore, ha ripetuto un ritornello che sentiamo ormai da qualche anno e ci viene somministrato continuamente come un tranquillante: “la dottrina non si tocca”. Anche Chiodi ha spiegato infatti che «non si tratta di abolire la norma» dell’Humanae vitae ma di «mostrarne il senso e la verità».

L’approccio interpretativo usato in questo ultimo assalto all’enciclica, come ho già affermato in altre occasioni, lo definirei un tentativo di “imbalsamazione”: cioè lasciare intatto l’esterno della dottrina, ma svuotandola dentro, con le abili mani degli interpreti e con i loro “adattamenti pastorali”. Nell’intento di “allargare il corridoio dei casi particolari”. Una strategia che ha l’obiettivo ultimo di collocare elegantemente l’Humanae vitae in bacheca. Il senso dell’operazione è duplice: togliere la contraccezione dalla categoria dei peccati, e declassare i metodi naturali ad una bella opzione, un “ideale alto” sicuramente “consigliabile” ma riservato a certe coppie “speciali” capaci di vivere a quelle altezze.

Ripercorrendo il filo di questa strategia, troviamo due momenti decisivi in cui è stata tirata fuori la chiave interpretativa. Uno è nella famosa relazione introduttiva con cui il card. Kasper, su invito di Papa Francesco, nel febbraio 2014 aprì il Concistoro straordinario in preparazione al Sinodo: parlando della genitorialità responsabile e del suo significato profondo, spiegava che questa responsabilità risiede non in una casistica, ma in «una figura sensata vincolante». E aggiungeva una nota a piè pagina dove si afferma che «l’enciclica di Paolo VI Humanae vitae, del 1968, sulla genitorialità responsabile può essere interpretata…» (W. Kasper, Il vangelo della famiglia, Queriniana, Brescia 2014, p. 19). Pochi giorni dopo, Papa Francesco riprende l’argomento specifico in una intervista. Il giornalista gli chiede se, a mezzo secolo dall’Humanae vitae, sia venuto il momento per la Chiesa di riprendere in mano il tema del controllo delle nascite, come auspicava il cardinale Martini. Nella sua risposta, Francesco afferma che «tutto dipende da come viene interpretata l’Humanae vitae…» (Corriere della Sera, 5 marzo 2014).

UNA MORALE “FUORI DALLA REALTA’” O FUORI DALLA MAGGIORANZA?

Il vero nodo del problema è che la norma morale di cui stiamo parlando non è “fuori dalla realtà” ma è fuori dalla maggioranza: cioè non vi corrisponde il comportamento della stragrande maggioranza dei cattolici. I critici dell’Humanae vitae considerano quindi «urgente la necessità pastorale di colmare la differenza, “addirittura l’abisso” esistente, tra la dottrina e la prassi prevalente della maggior parte dei coniugi cristiani» (L. Moia, Verso il Sinodo. Matrimonio e sessualità, il primato della coscienza, Avvenire 29 luglio 2015).

Nella sua relazione il professor Chiodi spiega che «la maggior parte delle coppie vive ormai come se quella norma non esistesse». Ufficialmente la norma è rimasta, ma «anche molti pastori in pubblico, nelle catechesi e nelle preghiere preferiscono non parlarne». Ed è significativo – prosegue Chiodi – che anche Amoris laetitia «ne parli così poco» dell’Humanae vitae: «è citata soltanto sei volte», e viene presentata in «una formulazione relativamente soft». Chiodi osserva inoltre come Amoris laetitia «non faccia esplicito riferimento alla contraccezione come “intrinsecamente sbagliata”», mentre «avrebbe potuto farlo facilmente, come fa Veritatis splendor».

Se quindi «dal punto di vista pastorale l’urgenza del problema contraccezione sembra essere gradualmente diminuito», osserva Chiodi, resta però il fatto che l’enciclica Veritatis splendor, al n. 80, ha incluso la contraccezione tra gli intrinsece mala. E ciò complica evidentemente l’operazione di reinterpretazione in corso. Il vero baluardo, dunque, contro cui si sta consumando l’assalto non è tanto l’Humanae vitae, quanto la Veritatis splendor dove san Giovanni Paolo II, forse prevedendo certi futuri tentativi di sfondamento, volle chiudere la partita, da un lato chiarendo che esistono alcuni “assoluti morali” (tra cui la contraccezione come l’adulterio e l’aborto), dall’altro condannando definitivamente l’etica della situazione e la teoria della “opzione fondamentale”.

Per quanto mi riguarda, la sofferenza non sta tanto nell’essere classificati come fanatici moralisti o duri “dottori della legge”. La sofferenza più grande è vedere la Chiesa cattolica che proclama santo un gigante come Giovanni Paolo II e poco dopo inizia a demolirne l’insegnamento.

Se il problema è l’impopolarità di una norma morale, mi pare di poter dire che i piani alti della Chiesa si trovano oggi nella tentazione di abbassare l’asticella della morale sessuale nel tentativo di rendere un certo annuncio più gradevole e meno esigente. Si tratta però di una drammatica illusione. Nei Paesi Bassi questa strategia degli sconti al confessionale e delle “soluzioni pastorali” (messa in atto già dai tempi del ’66 con il “Nuovo Catechismo olandese”) ha dimostrato risultati disastrosi in termini di avvicinamento alla fede. E la situazione della terra tedesca ci dicono che non sia molto rosea. La scelta di arrendersi alle logiche del mondo e alle sue maggioranze è un errore tragico che risale ai tempi di Pilato: anche lui sapeva bene da che parte stava la verità ma fece quello che fece – spiega l’evangelista – «volendo dar soddisfazione alla moltitudine» (Mc 15,15).

A Casa Betlemme invece sono molti di più di quanto si pensi i giovani sposi che vengono, da decenni, ad imparare dall’Humanae vitae. Qui insegniamo loro non ad interpretarla ma ad incarnarla nella propria vita sponsale, lasciandosi interpellare dalla “vera felicità” (Humanae vitae n. 31). Giovani famiglie talmente affascinate e trasformate da questo vangelo della sessualità, che alcune di loro hanno deciso di dedicarsi anima e corpo a testimoniare la bellezza, la bontà e la praticabilità di questo insegnamento.

Un’ultima annotazione, sul «nuovo femminismo» che auspicava san Giovanni Paolo II al n. 99 di Evangelium vitae. Per capire a pieno il tema della procreazione responsabile lui si è fatto aiutare da due donne speciali, due giganti che ho avuto la fortuna di ascoltare a lungo come docenti: la psichiatra Wanda Połtawska e la ginecologa missionaria Anna Cappella. Io penso che la morale e la teologia (mi riferisco specialmente alla mariologia) sono state scritte troppe volte da uomini. La relazione di Maurizio Chiodi può essere condivisibile in alcuni passaggi, però finisce per allinearsi alla grande operazione di coloro che vogliono “rileggere” l’Humanae vitae con adattamenti e libere interpretazioni: è una corrente molto forte che, riesumando un armamentario di vecchie argomentazioni e grimaldelli teologici (finalizzati a sdoganare la contraccezione), usa Amoris laetitia per scardinare la sana dottrina e duemila anni di Tradizione cattolica. Tradendo, nei fatti, il magistero di san Giovanni Paolo II e tutte le sue raccomandazioni pastorali. Il titolo della relazione, in definitiva, esprime un programma: “Rileggere Humanae vitae (1968) alla luce di Amoris laetitia (2016)”. La mia preferenza va ad un altro tipo di relazione, firmata da una donna, Marina Bicchiega, che collabora con me da venticinque anni su questo tema specifico. Contiene tutto ciò che serve per rispondere alle sei obiezioni tipiche e capire il cuore di questo grande dibattito. Il titolo è leggermente diverso ed è formulato da un’altra prospettiva: “Le ragioni dell’Humanae vitae alla luce di san Giovanni Paolo II (Libertà e Persona, 4.12.2017).

Arezzo, 28 gennaio 2018, San Tommaso d’Aquino

Flora Gualdani, ostetrica – fondatrice opera “Casa Betlemme”

QUI la versione dell’articolo di Flora Gualdani in PDF