La dimensione epica della preghiera: il combattimento

MONASTERO Wi-Fi ROMA, 4 aprile 2022
Catechesi sulla Preghiera

di don Paolo Prosperi

Vi saluto e sono molto grato e onorato di questo invito che mi ha fatto Costanza che ho conosciuto da poco. Ci siamo conosciuti dopo la S.Messa alla Navicella, un paio di mesi fa e subito ho avuto un’ottima impressione. Nel dialogo con lei ho sentito un grande entusiasmo per la fede, per il Signore e, anche quando si è estranei, la cosa bella è che quando si ama il Signore ci si trova subito insieme. Per questo mi sento un po’ a casa mia, anche se la maggior parte di voi non vi conosco.
Cercherò di stare nei tempi anche se la brevitas non è la mia più grande virtù.

Il tema che mi è stato assegnato si inserisce in un percorso che voi state facendo.
Non ho potuto seguire i vostri precedenti incontri quindi spero di non ripetere cose che avete già sentito, in tal caso perdonatemi. Comunque repetita iuvant.
Stare davanti a Cristo non fa mai male, non è mai ripetitivo. Bene.

Il tema che mi è stato assegnato sono le parti del catechismo che riguardano la preghiera, in particolare un suo aspetto, se si vuole, misterioso e delicato del nostro dialogo con il Signore, del nostro rapporto con il Signore.
In realtà sarebbe più di uno, ma io mi concentrerò principalmente su un tema, anche per non dilagare eccessivamente, e questo è il tema del combattimento, del combattimento come preghiera.
Parliamo di un tema importante quanto misterioso, potremmo dire quello della dimensione guerresca, a me piace dire EPICA, per usare un termine che amo molto, della preghiera.

La preghiera è veramente un’avventura epica per chi ha la grazia di entrare nel suo mistero.
E questo è il tema di cui  vogliamo un po’ occuparci questa sera.
Ebbene si, ci dice il catechismo, la preghiera è anche questo: combattimento, lotta.

La preghiera è certamente dolcezza, è cercare di aprirsi ad un dono di grazia, che da dolcezza al cuore -come credo e spero tutti, poco o tanto, lo sappiamo, ne abbiamo fatto esperienza – come ci insegna il grande S.Bernardo :

Iesu dulcis memoria
Dans vera cordis gaudia
Sed super mel et omnia
Eius dulcis praesentia.

Se il solo ricordo di Gesù è già dolce e da gioia al cuore, dice Bernardo, figuriamoci la sua presenza, figuriamoci le sue visite, quelle visite, rare e frequenti che siano, che per l’appunto sono promesse a chi prega, a chi cerca il Signore con cuore davvero assetato, affamato del tocco della sua presenza.

E tuttavia la preghiera non è solo questo è anche la lotta, è anche combattimento, è anche fatica, sforzo. Perchè ?
Perchè ci deve essere anche questa dimensione nel nostro rapporto con il Signore?

Di più, perchè ciò non solo è inevitabile, per così dire, ma in qualche modo è bello?
Si, è più bello e buono che sia così.

Perchè non è un male o appunto qualcosa di inevitabile, che dobbiamo sopportare e accettare a causa della nostra fragilità, del nostro limite, della nostra peccaminosità.
Non è un male che il nostro rapporto personale con il Signore, il nostro dialogo con Lui, sia non solo dolcezza, non solo rose e fiori, ma anche lotta, ma anche deserto, ma anche notte.

“Benedite notti e giorni il Signore”
dice il bellissimo cantico dal libro di Daniele, al capitolo terzo, che recitiamo molte domeniche duranti le lodi.
Benedite notti e giorni il Signore.
Lodatelo e esaltatelo nei secoli”
Ho sempre amato questo versetto
Benedite luci e tenebre il Signore.
Lodatelo e esaltatelo nei secoli”

Perchè il nostro dialogo con il Signore, il nostro rapporto con Lui, deve essere un’esperienza non solo di luce, ma anche di buio.
E in che senso anche la notte, dice il libro di Daniele, rende lode al Signore non meno del giorno?

Benedite mostri marini il Signore.
prosegue il testo.
I miei amici sanno quanto io ami il mondo animale e quella che io chiamo zoologia simbolica
Benedite mostri marini e quanto si muove nell’acqua il Signore
Lodatelo e esaltatelo nei secoli
Benedite uccelli tutti dell’aria il Signore
Lodatelo e esaltatelo nei secoli”

Quante volte, immergendoci nella preghiera, capita l’opposto di quello che uno si aspetta e desideri, vorresti che il tuo cuore si elevasse in Dio, libero e leggero come un uccello dell’aria – Benedite uccelli tutti dell’aria il Signore – e invece ti ritrovi a lottare con i mostri marini, cioè con quel terribile mondo di fantasmi e mostri che, come sappiamo bene, abitano nelle acque profonde del nostro io, del nostro inconscio, che spesso salgono proprio quando lasciamo che il silenzio regni in noi ? Vengono in superficie dal profondo.

Ebbene, perchè anche queste esperienze sono un bene, in che senso anche i mostri marini benedicono il Signore non meno degli uccelli dell’aria?

Insomma in che senso la lotta ha anch’essa una sua gloria, una sua bellezza, una sua musica tutta da scoprire, un suo valore diverso, magari, da quello dei momenti di gioia e di leggerezza, e, tuttavia, non meno importante, non meno grandioso, non meno, appunto, epico?
Questa è la prima domanda su cui vorrei riflettere un po’ questa sera con voi.  

La seconda, che , evidentemente è tutt’uno con la prima, la formulerei così:
Dato per assunto che pregare è di fatto  spesso faticoso, che pregare di fatto è anche lotta,  è importante domandarsi “ di che lotta si tratta esattamente?”.
Parlare di lotta significa parlare di nemici, o per lo meno di avversari. Chi sono i nemici
in questo combattimento, chi sono i mostri marini? –  per rimanere nell’immagine.

Uno lo conosciamo, lo sappiamo, anche se, speriamo , non lo abbiamo mai visto in faccia, è il diavolo, avversario per eccellenza del Signore e di ogni Suo seguace; ma si tratta solo di lui?
O ancora si tratta solo delle nostre passioni distorte, che di lui sono i ministri nel nostro cuore; o, forse – e questo è il tema più insolito ed accattivante su cui vorrei concentrarmi di più, anche se evidentemente è connesso con gli altri – o forse il mostro marino può anche essere addirittura anche simbolo di Dio stesso, così che si può dare il caso, il mostro marino è una creatura di Dio: tutto è creato buono, se l’ha fatto è anch’esso simbolo,  segno, immagine del Creatore.
O forse il mostro marino può essere simbolo di Dio stesso ; così che si può dare il caso in cui, in un senso tutto da scoprirel’avversario con cui nella preghiera si duella, ebbene sì, a volte diventa il Signore stesso?

Come si vede, si tratta di domande profonde, cui ovviamente non pretendo di offrire risposte esaustive. Non sarei in grado neanche se avessi molte ore a disposizione, che non ho per vostra fortuna.

Mi limiterò a suggerirvi tre piste di riflessione, di meditazione personale; poi magari, anche meditando i testi della Scrittura, che così vi sgranerò brevemente davanti agli occhi, poi, dopo, vi invito a tornarvi perché, come sappiamo, la Scrittura è sempre un pozzo senza fondo, si scoprono cose sempre nuove.

Mi limiterò, dicevo, a suggerire tre piste di riflessione che vogliono mettere in luce altrettanti aspetti del mistero in questione.
Enuncio subito a modo di ouverture – voi sapete che le ouverture nelle opere contengono tutti i temi musicali  principali dell’opera – quindi enuncio subito a modo di ouverture la tesi fondamentale che mi guiderà in queste brevi riflessioni, poiché in essa è racchiusa quella che considero la chiave unificante di tutto ciò che cercherò di dire poi, commentando alcuni passi della Scrittura, a me particolarmente cari.

La tesi fondamentale è questa: la preghiera cristiana è lotta, e, poco o tanto, non può che esserlo, perché la vita cristiana è dramma d’amore, è relazione fra un IO e un TU, tra due libertà irriducibili l’una all’altra.

Non è forse vero che ogni autentica, grande storia d’amore, in qualche misura è anche duello ?
E non è forse vero che noi vogliamo che sia così? Troviamo affascinante e bello che sia così?
Pensiamo ai romanzi e ai film che più amiamo: mi viene in mente “Pride and Prejudice”, Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen, un bellissimo romanzo.
Noi non vogliamo solo il lieto fine, no; vogliamo anche che ci sia il travaglio e l’avventura della conquista. Che l’amante sia disposto a soffrire, che sia pronto ad attraversare il tormento della frustrazione, del dubbio, dell’apparente insuccesso, dello sperare contro ogni speranza, del perseverare anche quando le cose sembrano andare male. Che l’amante si, sia disposto a perseverare, magari addirittura a disperare del successo, prima di essere sorpreso, all’improvviso, dall’insperato dono finale del sì dell’amata. Vogliamo che l’amante fatichi, almeno un po’, che incontri resistenza, che tra l’amante e l’amata si instauri una sorta di singolar tenzone, poiché se così non fosse, anche il lieto fine non darebbe alcun piacere, né dolcezza al cuore.
Orbene, perché è così?
Forse non ce lo siamo mai chiesto; è innanzitutto un dato, un’esperienza, quando guardiamo un film, o leggiamo un bel romanzo. Invece è importante farsi certe domande, no. Si scoprono spesso le cose più interessanti quando ci si interroga sull’ apparentemente ovvio.
Perché accade così?
E’ ovvio che qui non si tratta di sadismo, quasi che la sofferenza o la fatica ci dessero piacere in quanto tali.
Dio non ha voluto la sofferenza, né tanto meno ha voluto che guerra e morte entrassero nel mondo. E tuttavia noi sentiamo, prima ancora che capirlo, noi sentiamo, che nel mondo così come lo conosciamo, nel mondo così com’è, c’è un mondo ferito dal peccato e pur pieno di luce e gloria; l’amore matura, si purifica  e infine trionfa, sempre e soltanto passando per la sofferenza, per un certo travaglio, per una certa lotta.

Noi sentiamo, prima ancora di capirlo, che è così, che deve essere così in rapporto al tu umano, figuriamoci se non deve essere così in rapporto al Grande Tu, al Tu con la T maiuscola, il Signore, lo Sposo con la s maiuscola

Vengo così ai 3 punti, alle 3 variazioni sul tema
1) Primo punto , GIACOBBE e l’ANGELO.
Brano molto famoso che adesso mi accingo a leggere.
Chi si arrende vince” dice un mio ex studente che sa che mi piacciono i paradossi, chi si arrende vince- un brano molto misterioso che adesso leggeremo insieme.
Ovviamente sono possibili altre esegesi , io vi propongo la mia lettura , innanzitutto un breve inquadramento per chi non fosse fresco, per chi non ricordasse bene il contesto di questo episodio, così misterioso, della vicenda di Giacobbe.
Senza conoscere i precedenti diventa difficile comprendere l’importanza della vicende di Giacobbe, che proprio qui diventerà Israele. Allora faccio un breve riassunto che traggo dalla catechesi di Benedetto XVI sullo stesso passo, invece nella seconda parte prenderò una mia personale direzione.

Giacobbe aveva sottratto al suo gemello Esaù la primogenitura in cambio di un piatto di lenticchie. Sappiamo che aveva carpito con l’inganno la benedizione del padre Isacco ormai molto anziano, approfittando della sua cecità. Giacobbe innanzitutto è il furbo , l’intelligente, quello scaltro, colui che sa usare della sua intelligenza per volgere la situazione a proprio favore. Così riesce ad acquistare la benedizione e il Signore apparentemente valorizza questa furbizia, questa scaltrezza di Giacobbe, e sembra effettivamente accordargli la benedizione.

Sfuggito all’ira di Esaù si era rifugiato presso un parente, Labano, si era sposato, si era arricchito e ora stava tornando alla terra natale, alla terra promessa, alla terra della promessa e quindi quella terra che coincide in fondo con l’eredità di Abramo e quindi con la benedizione il Signore.
Ovviamente c’è da affrontare Esaù e Giacobbe si avvicina, anche con un certo timore, presupponendo giustamente l’ira del fratello, a cui ha sottratto la benedizione.
Tutto è pronto per questo incontro, dopo aver fatto attraversare a coloro che erano con lui il guardo del torrente che delimitava il territorio di Esaù Tutto è pronto: ha già mandato i suoi servi a portare dei doni a Esaù per ammansirlo. Tutto ha calcolato, tutto ha programmato a dovere!

Ma succede qualcosa di non previsto, quando tutto è pronto, quando ha fatto attraversare a coloro che erano con lui il guado del torrente che delimitava il territorio di Esaù, Giacobbe è rimasto solo. La preghiera può essere comunitaria ma la lotta è sempre solitaria.
La lotta è sempre solitaria, è un a tu per tu, è un corpo a corpo.

Giacobbe, rimasto solo, viene aggredito improvvisamente da uno sconosciuto con il quale lotta per una notte. Proprio questo combattimento corpo a corpo, che troviamo nel capitolo 32 del libro della genesi che vi invito a rileggere, diventa per lui una singolare esperienza di Dio.  Allora leggiamo questo sublime, magnifico, misterioso testo.

«E Giacobbe si alzò quella notte, prese entrambe le sue mogli, entrambe le sue ancelle e i suoi dodici figli e li condusse oltre il guado dello Iabbok. Li prese e li portò al di là del fiume e portò tutto ciò che aveva. Giacobbe rimase indietro da solo. Qui un uomo lottò con lui fino all’aurora. Quando vide che non riusciva a vincerlo, gli toccò il fianco. Così il fianco di Giacobbe si era lussato mentre combatteva con lui. E disse: “Lasciami andare! L’aurora sta risuonando!”. Disse: “Non ti lascio finché non mi benedici!” Gli disse: “Come ti chiami?” Egli rispose: “Giacobbe”. Lui disse: “D’ora in avanti non ti devi chiamare Giacobbe, ma Israele. Hai lottato con Dio e con gli uomini e hai riportato la vittoria”. Quindi Giacobbe fece questa richiesta: “Rendi noto il tuo nome!”. Egli disse: “Che cosa mi chiedi del mio nome?” Allora lo benedisse. E Giacobbe chiamò il luogo Penuel: “Ho guardato Dio faccia a faccia e sono rimasto in vita!”. E il sole si alzò…» (Genesi 32, 23-33).

Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora, vedendo che non riusciva a vincerlo.
Chi? Giacobbe all’uomo misterioso, o l’uomo misterioso a Giacobbe.
Non è detto.
L’uomo misterioso lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò mentre continuava a lottare.  Quando lui gli disse: “Lasciami andare perché è spuntata l’aurora” Giacobbe rispose “Non ti lascerò!” – torneremo su questo “Non ti lascerò!” che a mio avviso evoca un altro passo biblico distante da questo- “Non ti lascerò se non mi avrai benedetto“.  Gli domandò “Come ti chiami?
rispose “Giacobbe“, riprese “Non ti chiamerai più Giacobbe ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto”. Giacobbe allora gli chiese: “Dimmi il tuo nome?“– ritorneremo su questo – e qui lo benedisse.

Faccio notare questa associazione apparentemente illogica: prima rifiuta di dirgli il nome e poi lo benedice. Qua c’è un ossimoro.

Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel, perché disse “Ho visto Dio faccia a faccia eppure la mia vita è rimasta salva
Spuntava il sole quando Giacobbe passò il Penuel. Giacobbe zoppica all’anca – mi fermo.
Zoppicava all’anca, rimarrà zoppo per tutta la vita, il buon Israele.
Questa ricezione del nuovo nome, Israele, colui che ha vinto, si associa a questo essere zoppo, a questo segno indelebile, a questa ferita, perché?
Misterioso racconto, forse uno dei più misteriosi dell’antico testamento.
Da una parte si dice che Giacobbe combatte e vince – addirittura il suo nome sembra significare questo, il suo nuovo nome, quello che lo renderà padre, poi, del popolo eletto – dall’altra tale vittoria è strana perché ha tutto l’aspetto di una sconfitta.
Per prima cosa egli rimane sciancato nella lotta, mentre il suo avversario non si dice abbia riportato alcuna lesione. In secondo luogo, mentre Giacobbe rivela all’Angelo del Signore il suo nome, Giacobbe e anzi, riceve da lui un nome nuovo, segno di proprietà – adesso lo diremo – il Signore non gli rivela il suo, benché Giacobbe glielo abbia chiesto. Perché?

Noi sappiamo che, nella scrittura, essere messi a parte del nome di qualcuno significa, in qualche modo, possederlo, acquisire diritti su quella persona, il diritto di chiamarlo e di essere quindi ascoltati.
Cosa significa ciò?
Significa che, dopo questa lotta, Giacobbe è divenuto ormai proprietà del Signore, egli è suo, gli appartiene, mentre non è altrettanto vero il viceversa, o meglio, non lo stesso senso.
L’esito della battaglia non è la sottomissione del Signore a Giacobbe, ma il viceversa, d’ora in poi Giacobbe sarà del Signore, docile alla Sua voce, sua totale proprietà.
Il frutto della lotta tra Giacobbe e il Signore è cioè, sì la benedizione – lo benedisse – ma tuttavia si tratta di una benedizione paradossale, poiché il suo contenuto non è un possedere ma un essere posseduti, un non appartenere più a sé, ma a un altro, al Signore.
Lo spaccarsi di quell’autonomia, di quella centratura su di sé, che era del Giacobbe di prima, il Giacobbe scaltro, il Giacobbe-Ulisse, per così dire, che ce la fa da sé!

Comprendiamo così in che senso la sconfitta è vittoria: è una trasformazione profonda del suo io, che è poi ciò in cui la vittoria consiste, ciò in cui la benedizione consiste.
In realtà la benedizione che Giacobbe strappa al Signore non consiste in beni materiali ma in questo nuovo, profondo, timore del Signore, in questo sapersi appeso ogni istante alla sua volontà, al suo aiuto, al suo sostegno, alla sua forza. In questo sentirsi totalmente in balia sua, del Signore.

Comprendiamo così allora, anche, il senso profondo di questa ferita, di questa zoppia misteriosa che la lotta col Signore lascia in eredità a Giacobbe. L’anca sciancata, è in realtà, parte della benedizione. Ebbene sì, poiché la benedizione consiste proprio in questo: nel saper di non poter più camminare confidando sulla propria forza, sulla forza delle proprie gambe, nel saper cioè di esser nulla, senza il Signore.

Lo stesso è vero dei nostri invisibili, tanti o pochi che siano, corpo a corpo col Signore, dei nostri personali guadi dello Iabbok.

Se Egli ci resiste, se sembra talvolta privarci della benedizione richiesta, si tratti di richieste materiali, di grazie molto concrete, fisiche o di consolazione interiore, ciò non è per sadismo, se Egli non cede è, di solito, perché ci vuole dare di più di quel che gli chiediamo. Egli ci vuole liberare del nostro vero e più grande nemico, che è il nostro egocentrismo, quell’egocentrismo della carne che ci porta sottilmente a voler sempre dal Signore, sempre e solo, quel che abbiamo in testa noi, quando Egli vuol darci molto di più.

Che cosa vuol darci?
Un cuore ferito, un cuore ferito dal bisogno di Lui, un cuore che vive del rapporto con Lui, come dell’aria che respira, del dialogo con Lui, un cuore mendicante, un cuore povero.
Di fatto accade proprio un cuore sciancato, per rimanere nell’immagine, che è poi il cuore veramente sano.
Di fatto accade proprio così: tu chiedi, gridi – quanti di noi hanno ben presente nella memoria tanti e tanti episodi della propria vita – tu chiedi, gridi e Lui non risponde.
Sembra non rispondere.
Allora gridi più forte, come fa il cieco Bartimeo; “Ma come non senti? Sei sordo?”
Porgi l’orecchio” dicono i salmi – bellissima espressione, che è come se presupponesse che c’è Qualcuno che ascolta, ma che è anche talmente e sovranamente libero che può non venire in soccorso-
Non è un erogatore di grazie il Signore.

Che cosa vuol darci?
Come non senti, perchè non mi aiuti?
E lui nulla, non risponde, sembra non volerti esaudire.
E tuttavia misteriosamente, non sai neanche tu come accada – anche questo penso e spero sia un’esperienza nota – anche tu come Giacobbe ti trovi innanzitutto ad insistere, ti trovi addosso una forza di perseveranza che è strana, perché è come se non venisse da te, che non sai neanche tu da dove venga.
E poi, ad un certo punto, accade una cosa ancora più strana, magari vieni esaudito nella tua richiesta o magari no, ma non ti importa quasi più, perché ciò che ti trovi addosso, il frutto di questo lungo corpo a corpo, la benedizione che lottando hai strappato al signore, la vittoria che hai ottenuto, è più grande di quello che avevi programmato, di quel che avevi immaginato, di quel che avevi chiesto.
E’ in fondo il dono del gusto della preghiera stessa. E’ questo cuore ferito, è questo cuore che piange, che lacrima con una facilità ignota, che cerca il Signore come un bimbo la presenza della sua mamma.

2) Veniamo qui al secondo punto.
Si comprehendis, non est Deus“, frase famosa del grande ipponate sant’Agostino, “Se lo comprendi, non è Dio”.
Sottotitolo: lasciare che Dio sia Dio. Lasciare a Dio di essere Dio.
Torniamo al punto che vi avevo anticipato, un altro punto misterioso del testo, alla parte del dialogo in cui appunto il Signore sembra rifiutarsi di dire il suo nome a Giacobbe e poi subito lo benedice, leggiamo il passo:
Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, finché non mi avrai benedetto!”.

In questo “non mi trattenere / lasciami andare” vi invito ad andare a rileggere l’incontro tra Maria Maddalena e il Signore al Sepolcro, scena assolutamente analoga, perché in realtà in greco non è “non mi toccare”, ma “non mi trattenere”, segno che la Maddalena lo sta afferrando per tenerlo.

Non ti lascerò finchè non mi avrai benedetto”, mi sembra quasi di vederlo questo Giacobbe che lo tiene e questo che cerca di sgusciare via.

Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e hai vinto!” Giacobbe allora gli chiese: “Dimmi il tuo nome” – prese coraggio, insomma, aveva vinto e quindi vuole sapere il suo nome – Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome?”. E qui lo benedisse.

Voglio farvi notare questa coincidenza fra il silenzio, la reticenza del Signore e l’atto di benedizione, di donazione, di generosità, quasi che l’una cosa coincidesse con l’altra; cosa vuol dire questo?
Ce lo insegnano i grandi mistici, a partire – appunto – da Agostino; significa che conosce veramente Dio – diceva Gregorio di Nissa – colui che ne comprende l’incomprensibilità, colui che comincia a comprendere che Egli è davvero l’immenso, l’infinito, il sempre più grande, colui che non può essere racchiuso in nessuno, neanche nel più grande dei suoi doni, e perciò entrare veramente nella maturità del rapporto con il Signore significa entrare in questa apertura permanente per cui il discorso non è mai chiuso, in questa sorta di liquidità.

E’ bellissima questa immagine, questa è forse l’immagine più bella che usa Gesù stesso – non a caso – per dire che cos’è l’essenza paradossale di questa simultaneità di movimento e riposo che è la vita dello Spirito, che in fondo è il dialogo con il Signore nella preghiera, questo aprirsi continuo a donazione sempre nuove, sempre più imprevedibili, sempre inesauribili.

È proprio l’immagine della fonte zampillante, è proprio l’immagine che Gesù usa nel dialogo con la Samaritana e che anche Gregorio di Nissa riprende.
L’immagine della fonte è perfetta, è plasticamente la più esatta per descrivere l’essenza della vita dello spirito, perché tu puoi godere dell’acqua di sorgente, della sua freschezza, della sua purezza vivificante solo se rimani sempre esposto, sempre aperto, al suo sgorgare sempre nuovo, e sgorgare da una profondità incatturabile, invisibile, indominabile.

Cosi è della vita dello Spirito.
Se pretendi di bloccarla, di dominarla di impossessartene come di una cosa. Se ti fissi sul dono ricevuto, staccandoti  dalla relazione attiva con la Fonte allora il dono si corrompe, l’acqua si fa stagnante. Se invece rimani sempre teso al donatore, sempre aperto e mendicante, allora lo Spirito scorrerà sempre più potente, impetuoso in te come acqua sorgiva, sempre nuova e fresca; ecco il vero riposo, questo uscire da sé continuo, questo esodo permanente, verso il Tu inesauribile sempre altro del mistero di Dio, del mistero di Cristo.

Rispose  Gesù, “Chiunque beve di quest’acqua, avrà di nuovo sete” – l’acqua del pozzo ” – ma chi beve dell’acqua che io gli darò” – l’acqua dello spirito -“non avrà più sete, anzi”  – quasi si correggesse per non essere frainteso – “l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna”.
Questo avere una sorgente in sè quindi non è l’abolizione di questa alterità, di questo dramma io-tu, è come se questo dramma io-tu si interiorizzasse, entrasse dentro di noi.

La vita divina suggerisce Gesù, non si possiede stabilmente, se non al modo in cui ci si abbevera ad una fonte, rimanendo cioè sempre aperti alla novità continua di un dono la cui fonte è il sempre libero venire a me di un altro.

Ed allora, torno indietro e vado per associazioni di testi, o associazione di idee che dir si voglia, c’è un altro testo che è ancora più direttamente è legato in modo misterioso e sottile.
Voi sapete che la Scrittura è un organismo, è un organismo vivente ed a prescindere dalla volontà degli autori umani, è lo Spirito Santo che lo ha ispirato, più la scruti e più trovi dei nessi e dici, si certo, qui c’è un rapporto segreto.
E quindi tutte le volte che leggo questo brano di Giacobbe, non può non venirmi in mente un testo che apparentemente non c’entra nulla, ed invece vorrei mostrarvi che c’entra eccome. È un altro testo caro ai mistici di tutti i tempi ed è la prima escurisione notturna della Sulammita nel Cantico dei Cantici, quando svegliandosi nella notte, la Sulammita vede il letto vuoto ed il diletto, l’amato del cuore è sparito e disperata e la Sulammita si getta fuori alla ricerca di Lui ed allora leggiamo questo brano e poi vi dirò dove sta il nesso.

Sul mio letto lungo la notte ho cercato l’amato del mio cuore, l’ho cercato ma non l’ho trovato. Mi alzerò e farò il giro della città per le strade e per le piazze, voglio cercare l’amato del mio cuore. L’ho cercato ma non l’ho trovato
..ecco la corsa nella notte, questo sottrarsi, questo resistere, del Signore… con la lotta.

Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda: Avete visto l’amato del mio cuore?
Da poco le avevo oltrepassate,
quando trovai l’amato del mio cuore.
Lo strinsi fortemente e non lo lascerò” .

Attenzione qua – quando trovai l’amato del mio cuore, lo strinsi fortemente e non lo lascerò….ecco come Giacobbe.
Questo ghermire, questo avvinghiarsi.

“Non lo lascerò finché non lo abbia condotto in casa di mia madre”  – finchè tu non mi abbia benedetto, vedete l’analogia – “nella stanza delle mia genitrice“.

Ecco così è il nostro rapporto con il Signore .
Tutte le volte che sembra sparire, ecco questa angoscia, quest’ansia, questo bisogno di ritrovarlo immediatamente e tuttavia, in questo desiderio, spesso siamo tentati di pensare che l’unica cosa che conta nella forma del nostro amore verso il Signore sia questo slancio del desiderio, che colma la distanza. Tuttavia è davvero così?
Il cantico ci dice No, non è in questo che consiste la maturità dell’amore: l’amore vero, l’amore maturo è come se dovesse unire due aspetti, due dimensioni che sono opposti.
Da una parte lo slancio del desiderio che cerca unità ma, nello stesso tempo per così dire il movimento opposto, il movimento del lasciar essere, del dare spazio alla incomprensibile sovrana inesauribile libertà del Tu.
Il Tu è infinità.

Quanto è vero questo non solo nel rapporto col Signore, ma anche nei nostri rapporti affettivi. Quanto è vero che nel momento in cui io penso di aver esaurito l’altro, di averlo compreso, il rapporto è finito e quanto è invece vero che quanto più io imparo a lasciar essere, a riconoscere, a gustare, e scoprire questa ineusaribilità, questo mistero senza fondo che l’altro è, tanto più il rapporto rinasce, perché imparo ad aprirmi a questo venire sempre di nuovo e sempre in modo nuovo dell’altro a me per poter godere dell’amore. Poiché l’amore è sempre dono puro, è sempre raggio di luce che erompe dalla tenebra, dalla coltre di nubi di una libertà che io non posso dominare. Quanto più io affermo positivamente questa libertà, tanto più posso godere di questo venire a me dell’altro in modi sempre nuovi.

Questo è proprio quello che ci insegna il finale così misterioso del Cantico dei Cantici. Il finale del Cantico – che infatti gli esegeti si scervellano sempre perché sembra contradditorio – cosa dice?
L’ultimo versetto del Cantico, Cantico 8, 14 è questo invito della Sulammita al diletto a fuggire, a tornare sui monti da cui è venuto “Fuggi mio diletto simile a gazzella, come un cerbiatto”, ecco ancora la zoologia teologica, “sopra i monti degli aromi”.

Io ho vissuto nove anni in America, al limitare di un bosco, andavo sempre a pregare e a correre in questo bosco. In America è pieno di cervi. Dove ero io, nella periferia di Washington, ne ho incontrati tanti. Non c’è niente di più bello di un cervo che balza libero, leggiadro, leggero, che salta fuori come dal nulla all’improvviso. Non puoi godere della bellezza del cervo, appunto, se non lasciandolo libero di balzare leggero, leggiadro come nient’altro in natura.

Lo stesso in qualche modo è vero del Signore.
Nel nostro rapporto col Signore, per godere della meraviglia di questi modi sempre nuovi che Egli sa inventare per farsi presente, dobbiamo lasciarlo libero.

Si comprehendis non est Deus.

Ma noi entriamo, potremmo dire, in questa castità nei confronti del Signore solo attraverso una iniziazione, un processo che è doloroso, che è lotta, come per la Sulammita.

3) Ultimo punto, ho ancora dieci minuti, ultimo punto: una resistenza generosa, nuovo paradosso, anche il Signore ama essere vinto.

Qui purtroppo ho dimenticato, vi volevo portare un brano di uno dei miei autori preferiti che è Charles Péguy, che esprime questo paradosso in modo sublime, purtroppo non ce l’ho. Ma vorrei, per affondare i denti su questo ultimo tema, spostarmi invece su un altro passo del vangelo, assolutamente sublime anch’esso, a me molto caro.

Questo tema, a mio avviso, è centrale nel vangelo di Giovanni , in particolare, nei tre dei grandi segni che Gesù fa. Innanzitutto, il primo e l’ultimo, che hanno tanti parallelismi, cioè il segno delle nozze di Cana, della trasformazione dell’acqua in vino e la resurrezione di Lazzaro e poi c’è il secondo segno di Cana, la guarigione del figlio del centurione (funzionario del re).

Questi tre passi, tra i diversi temi che hanno in comune, tra i diversi parallelismi evidenziano che nei suoi segni Gesù rivela la Sua gloria e che questa gloria non è solo nel miracolo che fa, come spesso, purtroppo sbagliando, si dice – ma è in tutto il dramma, in tutto il processo, è  il modo con cui il Signore fa il segno che rivela la gloria e il Suo amore. Ora in tutti questi tre segni c’è un particolare straordinario, quello che io chiamo un ungrammaticality, cioè un qualcosa che è strano, che non ci sta, che il lettore dice, ma perché fa così?
Questa ungrammaticality è questa apparente ritrosia di Gesù, che prima sembra non voler fare quello che poi fa.
Ovviamente il caso più famoso è quello di questo dialogo, quasi battibecco – con l’imbarazzo di tutti i mariologi che sentono messo in dubbio l’onore della madre – e insomma, non si scappa, se si legge il testo: “Non hanno più vino”, come risponde Gesù? “Donna” – già presa di distanza. Adesso lasciamo perdere i sensi simbolici che qua siamo già alla fine – “Donna che ho da fare con te?
Non si può negare che a un orecchio semplicemente umano questo suona come una presa di distanza, come un quasi rifiuto, non un rifiuto totale, lascia aperto il pertugio per la speranza che possa intervenire, dice: “Non è ancora giunta la mia ora”. A quale ora si riferisce? Noi sappiamo che nel senso profondo si riferisce alla Sua ora, all’ora della croce, all’ora in cui elargirà ben altro vino. Se Maria lo avesse saputo, non avrebbe chiesto, vino del Suo sangue, dal Suo costato. Ma, nell’immediato, lascia aperta la possibilità che possa intervenire. Ma allora se ha già deciso di fare il segno perché questo tirarsi indietro?

Lo stesso vale con il centurione che va a chiedergli la guarigione del figlio.
Se non vedete segni, voi non credete” (risponde inizialmente Gesù)

Il centurione che fa? Insiste ma cambia le parole e dice: Vieni il mio figlioletto caro sta male, “Signore, scendi prima che il mio bambino muoia“, cioè fa‘ vedere quanto vuol bene a questo bambino.
Perché il Signore fa così? Ancora una volta, è forse sadico? Non fa lo stesso con noi?
No, non è sadico!

Proprio il segno di Cana ci offre, a mio avviso, la risposta più giusta. Chi erano i responsabili del vino nelle nozze ebraiche? Erano lo sposo e la sposa. Certo Gesù ha in mente ben altre nozze, quelle nozze in cui Egli rappresenterà lo sposo e la donna, la madre, prenderà il ruolo della sposa e sarà sotto la croce. E tuttavia già qui, questo evento è anticipato.
È come dire che Gesù non vuole produrre il vino della gioia da solo, non vuole produrlo senza la collaborazione della fede perseverante della donna.

Perché credere il primo giorno è facile, nel secondo è già più difficile, il terzo è tre volte più difficile, il quarto è quattro volte più difficile, per questo è più grande, è gloria più grande, è collaborazione più grande perché è un’energia di libertà più grande, di fiducia, di generosità più grande.
Come se il Signore non volesse far tutto da solo, volesse esser vinto dalla perseveranza di colei che ama, come avesse sete della nostra sete.

Ecco allora perché questa resistenza che a noi , perché vediamo le cose dal versante sbagliato, appare spesso crudele ed invece è l’opposto, è dono, è generosità, poiché tutto ciò che il Signore fa’, per così dire la struttura musicale del dramma delle nostre vite, è sempre orchestrata in modo da dar gloria al suo amore ma il suo amore non è solo dare ma è anche ricevere.
Non è forse un onore che Egli ci fa, non è un onore quello di concederci di arrivare davanti a lui fieri del fatto che quel vino, il vino della salvezza, è stato prodotto anche da me, anche da te?

Allora mi sembra che sia il modo migliore di finire, alla luce di quanto detto, è fare memoria del grande gesto che ha compiuto il Papa proprio in questi giorni, questo gesto di consacrazione del popolo ucraino e del popolo russo al cuore immacolato di Maria. Questo gesto che molti, anche tra i cattolici, hanno preso come un “mah, sì vabbè “ in realtà è un gesto politico, per Danielou nel senso più alto del termine. Danielou ha scritto un libro bellissimo “la preghiera problema politico “.
Insomma il Signore è onnipotente e può fare quello che vuole, potrebbe chiudere la partita in un secondo. Perché non lo fa?
La nostra stupidità e anche la nostra grave mancanza sta nel fatto di pensare di fare “tanto il Signore sa come devono andare le cose” ma Egli ha già deciso di attribuire grande importanza, di attribuire protagonismo, alla nostra domanda, quasi che non volesse per così dire che gli eventi della storia prendano il corso giusto senza la collaborazione della nostra domanda.

A tal punto che la nostra semplice preghiera, l’abbandono nostro di fede ha potere.

Chiediamo veramente di vivere questi giorni di difficoltà, di dramma, di rischio anche per l’umanità con questa consapevolezza.
La nostra preghiera non è uguale a zero!
Non  a caso in tutte le apparizioni mariane la madonna sempre chiede preghiera e digiuno per scongiurare le sciagure.
A tal punto il Signore ha rischiato su di noi, a tal punto Egli ama esser vinto, non deludiamolo!”