Le vie del dolore

di Costanza Miriano

Per una di quelle strane sincronizzazioni attraverso cui la vita – Dio? – a volte ci parla, mi sono trovata a leggere contemporaneamente due libri specularmente opposti, Scientia Crucis di Edith Stein, e Il mio anno di riposo e oblio, di Ottessa Moshfegh. Mi ero imbattuta in libreria sulla sua strana copertina, un dipinto neoclassico, a occhio, abbinato a un giallo sparato e a una fascetta giallissima che lo definisce il miglior romanzo americano del 2018, e così lo avevo aggiunto alla mia pila, di cui si era guadagnato durante le letture vacanziere uno dei primi posti, scavalcando suoi colleghi in attesa da anni.

E così è finito che l’ho letto insieme all’amata Edith, e il risultato è stato singolare.

Nota: da qui in poi non vada avanti chi desidera leggere il libro della Moshfegh, cosa che peraltro io sconsiglio di fare, perché ho intenzione di parlare del finale, è troppo importante (poi non vi lamentate che ho spoilerato).

La protagonista di questo viaggio nella bruttezza è una ragazza bella in modo definitivo, che rimane bella nonostante i maltrattamenti a cui decide di sottoporsi; ricca senza ritegno; newyorkese di adozione, ovviamente upper east side, ovviamente bionda e ovvissimamente magra. I genitori sono morti lasciandole una eredità che la rende libera dal problema di guadagnarsi da vivere; ha 26 anni e ha ormai sperimentato tutto: feste estreme, alcol, droga, sesso occasionale (il tutto raccontato con crudezza e abbondanza di particolari, che è il motivo per cui sconsiglio la lettura, ma un distacco gelido). Insomma, la sua vita le offre tutto quello che il mondo – inteso in senso evangelico – può offrire: abita nella parte più esclusiva della città più importante del mondo, frequenta le feste giuste e lo fa sempre con i vestiti giusti, fa un non-lavoro molto cool, la fuffologa in una galleria di arte. È innamorata di un uomo che la sfrutta solo sessualmente, e le riserve di affetto (non) ricevuto dai genitori prima che morissero, la madre suicida, non le bastano ad affrontare una vita che non ha alcun senso. Così decide di ibernarsi, di dormire per un anno intero, con l’aiuto di una psichiatra cialtrona che le prescrive psicofarmaci in dosi sempre più massicce.

Il libro è la minuziosa descrizione – una penna veramente notevole – del suo sprofondare nel sonno e nella malattia mentale, dei suoi risvegli dal profondo, del suo riemergere e trascinarsi in pigiama, sempre più abbrutita (ma sempre bella, non si sa come), al negozietto degli egiziani aperto giorno e notte per rifornirsi di caffè e patatine e gelato.

È strano perché non succede quasi nulla in quei mesi di nulla, ma il racconto tiene incollati, grazie a una bravura quasi inspiegabile dell’autrice: mi ha ricordato certi film di Tarantino, dove la trama procede al rallentatore, ma tu non puoi fare a meno di seguire, e non sai perché, magari un dialogo insignificante, o una sequenza che inquadra oggetti normali.

Alla fine di questo viaggio nel sonno e verso il nulla, la protagonista svuota la casa sua e quella dei suoi, che poi vende, regala ricordi e libri e mobili e un guardaroba immenso e costoso. Rimane con una tuta e una felpa, e un completo di biancheria intima, più un sacchetto con documenti e carte di credito. Il materasso, le lenzuola, una sedia e un tavolino. Azzera tutto, non tiene neanche una foto, un libro, nulla di nulla.

E arrivata allo zero della sua vita, alla fine di questo anno di oblio – riposo non direi proprio -, e ricomincia piano piano a uscire di casa. Si trova in un negozio di televisori, è l’11 settembre 2001, e si imbatte nelle immagini delle torri che stanno crollando, e rimane ipnotizzata a guardare quella che le sembra essere la sua unica amica (che non vede da mesi) lanciarsi nel vuoto probabilmente con i suoi vestiti (a lei era andato tutto il suo guardaroba). Rimane sopraffatta dallo stupore nel vedere una donna che si tuffa nell’ignoto ed è perfettamente sveglia. E la trova bellissima. Lei invece aveva dovuto dormire per un anno intero, per cercare di fare lo stesso tuffo nell’ignoto, cioè in una vita totalmente priva di senso.

Ecco, mi sembra che Edith Stein dica esattamente il contrario. Una lotta per cercare un senso pur avendo il mondo ai suoi piedi e potendo scegliere apparentemente quello che vuole. L’altra riesce a dare un senso al non senso assoluto, cioè mentre muore in un lager in quanto ebrea di nascita, pur essendo ormai una monaca cattolica, e muore prendendosi cura dei bambini che le madri sopraffatte dalla fame e dalla disperazione non riuscivano più a guardare, muore accogliendo con gioia la sua croce per la salvezza del mondo. A questo l’aveva preparata tutto il suo cammino: aveva scelto di chiamarsi Teresa Benedetta della Croce perché aveva capito che solo quella, la croce, è la via per incontrare davvero Dio, e l’opera a cui stava lavorando quando vennero a prenderla dal monastero per deportarla era proprio Scientia Crucis, che infatti manca di una revisione finale, e che è il commento al poema di San Giovanni della Croce.

Anche lui carmelitano, anche lui con questo particolare carisma di annunciare il senso della sofferenza, anche lui passato attraverso croci ineffabilmente pesanti, compresa la persecuzione da parte dei confratelli, la fame, le flagellazioni, la prigionia. In queste sofferenze imposte con la violenza i due santi hanno saputo trovare Dio e arrivare alla perfetta letizia: “le grazie che mi ha fatto Dio non possono essere ripagate dalla mia piccola prigionia”, disse san Giovanni dopo essere stato chiuso per mesi in un buco nella roccia, affamato, senza luce, con poco pane e acqua e solo a volte una sardina. E questa è storia, non è un romanzo.

Il fatto è che se hai Dio il male e il dolore non solo hanno un senso, ma diventano la via.

Se non c’è Dio niente ha senso, neppure la vita più piena di privilegi, ed è inutile cercare di non sentire il dolore con gli psicofarmaci.