L’eredità di Giovanni Paolo II

di Costanza Miriano

Ho promesso a me stessa e al mio padre spirituale che non sarei entrata nella polemica sul Giovanni Paolo II (“non servi a nessuno, e se stai tutto il giorno a pensare a certe vicende della Chiesa, quanto tempo ti rimane per applicarti sul Vangelo?”), e anche se non sono molto convinta, ormai l’ho detto.

Vorrei però fare una piccola riflessione che penso possa servire a me e a qualche piccolo nella fede, che è rimasto scandalizzato dalla ricostruzione dei fatti uscita su Avvenire, che ha svelato la vera posta in gioco, cioè Amoris Laetitia, e i professori allontanati perché non ne hanno sottolineato abbastanza la rottura col Magistero della Chiesa, e hanno invece cercato di sottolineare gli elementi di continuità.

L’istituto si chiama appunto Giovanni Paolo II, un santo canonizzato da Francesco, mi sembra normale che si cerchi di preservare la sua eredità, sottolineando la continuità con la sua teologia, che sul corpo, l’amore, il matrimonio, il maschile e il femminile ha detto delle cose fondamentali aiutando tantissimi di noi a entrare nel mistero grande del matrimonio. Ha annunciato che è una via di santificazione per nulla inferiore a nessun’altra, nel corpo della Chiesa, ci ha incoraggiati a camminare, ad arrivare a vette alte, ci ha reso orgogliosi di essere chiamati a una bellezza tanto grande, anche nel dubbio e nella fatica che fanno parte del pacchetto base di ogni matrimonio. Non credo che Papa Francesco voglia mettere in dubbio questa eredità, quindi mi sembra normale che i docenti abbiano cercato di armonizzare le sue affermazioni col magistero precedente.

Immagino di essere troppo ignorante in teologia per capire la questione, però al mio sensus fidei sfugge dove sia il problema. Basta avere chiara la distinzione tra pastorale e dottrina che, tradotto per le mie amiche che non leggono di questioni vaticane, metterei così: la dottrina dice cosa è il vero bene dell’uomo, cosa lo salva, cioè lo fa profondamente felice. La pastorale invece aiuta le persone ad arrivare a quel vero bene che la dottrina indica, e non ha una ricetta fissa, perché cambia la cultura, il tempo, cambiano le storie personali.

La Chiesa non potrà mai cambiare idea su cosa è il vero bene dell’uomo, perché fondata sulla Parola di Dio e sul Magistero.

La pastorale invece non solo può cambiare, ma anzi deve necessariamente cambiare, tante volte quante sono le anime che cercano Dio, cambiare nel tempo, nei modi, cambiare con pazienza, studiare nuove strade. Essere elastica, morbida, creativa.

La Chiesa non potrà mai dire che il male è bene, ma potrà avere tutta la pazienza del mondo nell’amare le persone prima che cambino, nel credere che possano farlo, nell’accettare che nel processo di cambiamento continuino a peccare, magari un po’ di meno, magari gradualmente, ma sempre chiamando male il male.

Così fa una mamma che vede un figlio che fa una cosa sbagliata, e che lo porterà a perdersi: io ti amo, e basta, ti amo prima che sbagli, mentre sbagli e dopo che lo hai fatto. Aspetto che cambi – perché una mamma spera sempre – però ti dico cosa potresti fare per essere felice, perché io tifo per te.

In sintesi, dunque, la dottrina è una sola e vale per tutti. Ma in confessionale, o comunque nel rapporto personale, di guida spirituale, discernimento, amicizia, i sacerdoti continueranno a fare come hanno fatto finora, cioè cercare vie creative per permettere alle persone di avere un rapporto vivo col Signore, senza mai farle sentire escluse da niente.

Conosco vescovi rigorosissimi che già prima di AL ammettevano alla comunione persone divorziate e risposate, ma certo non lo annunciavano pubblicamente, perché ogni storia è unica, e solo Dio e il confessore possono conoscere un’anima a questo punto. Se lo avessero annunciato pubblicamente, sarebbe passata l’idea che potesse andare bene per tutti, senza un percorso, un cammino, una crescita, un’ascesi, senza che questa deroga costasse qualcosa di grosso. Non per far “sentire qualcuno in colpa”, ma perché non tutto è uguale, non tutto è indifferente, il peccato, anche se Dio lo perdona, comporta sempre dei pesi che qualcuno deve portare, ferisce qualcuno, noi o gli altri.

Per esempio, se crediamo come la Chiesa annuncia che gli atti omosessuali sono intrinsecamente disordinati, e sappiamo che spesso sono una conseguenza di una ferita, una risposta che le persone danno alla loro fatica, al dolore, al disagio, la mamma, la Chiesa, non potrà mai dire al figlio “stai pure nella tua ferita” perché è un bene per te. Significa non aiutarlo. Non può dire come ha fatto Chiodi, contattato per il Giovanni Paolo II, che c’è un bene nei rapporti sessuali omosessuali. La Chiesa dice “ti voglio bene comunque” (sto ancora aspettando qualcuno che racconti di un atto discriminatorio che la Chiesa ha fatto verso una persona omosessuale). Ma chiamare le cose col loro nome – la ferità è la ferita – è la prima carità. Certo, ci sono ferite che non guariscono mai – forse ognuno di noi ne ha – ma sono ferite, e negarlo non solo è una bugia, non solo fa male a chi sta in quel dolore, ma può chiudere una via possibile di salvezza, perché se tutti ti dicono che meglio di così non può andare, non c’è niente da fare, smetterai di cercare.

Qualche tempo fa una cara amica insegnante si è messa a piangere con me per un alunno terribile, che il collegio docenti aveva deciso di promuovere a pieni voti, facendo finta di non vedere i suoi comportamenti (alcuni di rilevanza penale) che erano una chiara richiesta di aiuto: smettere di correggere significa dire a qualcuno “non credo che per te possa esserci di meglio”, “non credo che per te sia possibile qualcosa di più”. La scuola ha detto a quel ragazzo “sei senza speranza”. Allo stesso modo la Chiesa è matrigna quando smette di indicare il bene più alto, e ti dice che tutto sommato va bene così: ti priva di una felicità più grande, e oltre tutto non è attraente.

Chiediamoci se le chiese non si svuotino perché tanto che puoi fare come ti pare te lo dicono tutti anche fuori, nel mondo. Se non mi proponi qualcosa di più alto, qualcosa per cui valga la pena di vivere e morire, perché mai dovrei venire ad ascoltarti? Ascolto me stessa e sto bene così.

Per fortuna nella Chiesa ci sono tanti bravi sacerdoti che rimangono fedeli al loro mandato. Poi, a parte quelli in mala fede, c’è una fetta della Chiesa che sembra ossessionata dal bisogno di essere tuttofriendly, come per farsi perdonare chissà quale rigidità, ma io sinceramente non ricordo un solo episodio di una persona che sia stata respinta con severità, negli ultimi diciamo quaranta anni. Forse chi ha questa preoccupazione ha in mente una chiesa di molti decenni fa, e di altre aree geografiche, che almeno qui in Europa non esiste più da tempo.

Io questa figura, tipo unicorno, della persona sposata in modo pienamente valido e consapevole, che dopo una rottura intraprende una nuova relazione ma ha un rapporto così solido e fondato con Cristo che la preghiera non gli basta, e non può fare a meno dell’eucaristia non la conosco. Forse il più delle volte si tratta di persone i cui matrimoni almeno da una delle due parti non sono avvenuti in piena consapevolezza, i cui matrimoni a occhio e croce sono nulli. Comunque sono casi così rari che si devono discernere nel rapporto personale e individuale, nel segreto del confessionale, non sui titoli di Repubblica (“la Chiesa apre ai divorziati risposati”, titolava il giorno dopo il sinodo). Non so, sinceramente non mi pare una questione così centrale da indurre la Chiesa a cambiare su molti fronti – eucaristia, confessione, peccato, e poi la sessualità (allora perché prima del matrimonio no se dopo sì?) – quando in questa epoca di confusione totale, e di dolore così diffuso, in questo Occidente povero di senso, l’ultima cosa di cui c’è bisogno è di altre opinioni personali, e relative. Già tutto dipende dalla percezione personale, e non mi pare che ci sia tanta felicità in giro, da questa parte del mondo. Qui la gente ha bisogno di un amore serio, che sappia lanciare una corda robusta alla quale aggrapparsi per tirarsi fuori dalla palude del soggettivismo più sfrenato, dell’inconscio che comanda, dell’individualismo pazzo.