L’incredibile “migrazione” di Dio fatto uomo

di Costanza Miriano

La vera, vertiginosa, incredibile “migrazione” di Dio è stata dalla sua natura divina a quella umana, assunta mantenendo anche quella divina. È questo che lo rende il punto zero della storia, il centro di gravità dell’universo. Credo che banalizzare questo annuncio dirompente – Dio ha preso la carne umana per amore degli uomini, e ha accettato di perdere, rinunciando all’esercizio della sua onnipotenza, o meglio, di realizzarla proprio morendo sulla croce per amore degli uomini – mettendoci a discutere quanto Gesù fosse ricco o povero, se fosse un immigrato irregolare o un profugo o semplicemente uno che è nato lontano da casa per un viaggio, sia dimenticare, o almeno non mettere abbastanza al centro il mistero, la vita eterna che è venuto a spalancarci. Parlare dell’incarnazione di Dio in un luogo e in un momento della storia, solo per leggere la società e l’economia di oggi significa usare categorie non sovrapponibili, con il rischio – fortissimo – di mancare il bersaglio.

Non voglio neanche entrare nella questione, per quanto a me pare pacificamente evidente che Gesù è stato un profugo durante la fuga in Egitto, mentre per il resto della vita terrena è appartenuto a una tranquilla famiglia  della provincia dell’impero romano, che intorno ai giorni della sua nascita si è dovuta spostare da una città all’altra per obbedire a una legge (il censimento). Posso spingermi a pensare che, affinché non si distogliesse dalla sua missione Dio non ha permesso che Gesù fosse povero o costretto dalla necessità a lasciare la sua terra per cercare lavoro, ma sinceramente non credo che sia una questione rilevante. Non mi cambierebbe molto.

Gesù non è venuto a portare una soluzione sociale, nemmeno alle ingiustizie più macroscopiche, come la schiavitù. È venuto a salvarci, anche da schiavi, a dirci che Dio è Padre e ci ama e ci vuole vivi per sempre.

Il punto è che non credo che diventerei capace di amare solo perché penso che Dio è stato povero e irregolare. Penso invece che grazie al battesimo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, quello che Gesù è venuto a portare possiamo sperare di diventare capaci di amare, mendicando da Dio che riempia del suo Spirito la nostra natura umana, e la possieda sempre più interamente. Possiamo mendicare la capacità di amare, nonostante la nostra umanità, nonostante il nostro ego così pesante e invadente, nonostante l’istintivo fastidio che possiamo provare quando qualcuno viene a prendere il nostro spazio e le nostre risorse (senza lo Spirito Santo non si può, e infatti non a caso i più favorevoli a un certo tipo di accoglienza sono quelli che vivono lontano dai luoghi fisicamente deputati ad accogliere, i residenti dei quartieri borghesi o ricchi, ai quali non costa nulla pensare di essere buoni).

Papa Francesco chiede a Gesù bambino: “la tua tenerezza risvegli la nostra sensibilità e ci faccia sentire invitati a riconoscerti in tutti coloro che arrivano nelle nostre città, nelle nostre storie, nelle nostre vite”. Ma appunto, essere capaci di amare è un dono di Dio, e non qualcosa che possiamo suscitarci da soli, né tanto meno frutto di una posizione ideologica. Essere capaci di amare è un regalo, che noi non possiamo farci da soli, ma che possiamo ottenere da Dio se gli facciamo una testa così, pregando, essendo fedeli ai sacramenti, digiunando, stando attaccati alla maternità della Chiesa, se lo chiediamo giorno e notte, supplicando Dio che cambi il nostro cuore di pietra. Un cambiamento che non possiamo ottenere ma solo attendere, come non possiamo far sorgere il sole, ma farci trovare lì quando sorge. Stare in attesa. A questo ci allena l’Avvento.

L’attesa della redenzione del nostro cuore, l’attesa di una grazia che ci liberi del nostro io così grossolano e che faccia il miracolo, ci renda capaci di farci agnelli, di prendere pesi che non ci competono, di passare per scemi, di non dire parole prive di carità su nessuno, e, certo, di amare anche i più lontani (magari se possibile partendo dai vicini, persino dai parenti visto che si avvicina il Natale, che spesso sono i meno gratificanti da amare): è questo il viaggio a cui anche noi siamo chiamati, in questo caso, sì, ad essere migranti. Dalla terra verso il cielo, dove non saremo “più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti”.