Non giudicare, non giudicare, non giudicare

di Giacomo Bertoni

«Quando un datore di lavoro si trova davanti la possibilità di reclutare una persona che non ha pregiudizi, che non giudica, che è cooperativo, che è amico di tutti, chi glielo fa fare di non prendere quello a preferenza di uno che magari usa giudicare il prossimo?». È sabato sera, sono le 23, dalla radio arriva la voce squillante di Sofia Corradi, l’inventrice dell’Erasmus, ospite della trasmissione di Irene Zerbini “Spunti di vista”, in onda su Radio24.

Partecipare al programma Erasmus significa immergersi in un Paese diverso, scontrarsi con le sfide dell’indipendenza acuite da una lingua e una cultura diverse, studiare le proprie materie con lingua, metodi e modalità d’esame diversi. Una grande opportunità, che grazie al programma Erasmus non è più appannaggio solo dei figli dei nobili, come invece accadeva nei secoli passati. Un erasmiano però trova lavoro in metà tempo perché «non ha pregiudizi, è amico di tutti». Davanti a me ho uno “Zingarelli” del 1971. A pagina 794, alla voce “giudizio”, la prima definizione data è la seguente: «facoltà propria della mente umana di confrontarsi, paragonare, distinguere persone o cose». Sull’edizione 2005 del “Garzanti”, a pagina 1024, alla voce giudizio la prima definizione è: «ogni affermazione che, superando la semplice constatazione di fatto, esprime un’opinione». E la seconda definizione aggiunge: «la facoltà umana di giudicare; discernimento, senno». Siamo nel campo semantico del discernimento, della capacità di leggere la realtà e filtrarla, comprenderla, giudicarla.

È stato un giudizio sulla realtà che ha fatto sì che Liliana Segre, di fronte all’orrore dei campi di concentramento nazisti, scegliesse di non farsi mai complice del male, di non diventare mai come i suoi aguzzini, di non lasciare spazio all’odio nel suo cuore. È stato un giudizio sulla realtà che ha permesso a Irina Ratušinskaja, dal lager sovietico, di non perdere la sua umanità, di arrivare a scrivere “Grigio è il colore della speranza”. È stato un giudizio sulla realtà che ha portato Aleksandr Solženicyn a sopravvivere alla prigionia nel gulag, a fotografare nei suoi scritti ancora tremendamente attuali l’identikit perfetto di ogni dittatura. Che si nasconde per qualche tempo, che cambia maschera e colore, ma che rimane riconoscibile per il suo odio verso l’uomo e la verità. È stato un giudizio sulla realtà che ha sostenuto Alekos Panagulis durante i tre anni e mezzo di carcerazione nella “tomba”, la speciale cella senza finestre costruita apposta per farlo impazzire, portandolo a non diventare schiavo della dittatura in cambio della libertà. È stato ancora un giudizio sulla realtà che ha spinto Andrea Franzoso a denunciare il suo capo per illeciti, perdendo il lavoro, il sostegno e l’amicizia dei colleghi. E allora sì, troviamo il coraggio di dirlo: chi ha voglia di assumere qualcuno che non è disposto a tutto pur di uno stipendio? Qualcuno capace di dire no, qualcuno disposto a denunciare, qualcuno pronto a lasciare se in pericolo di essere coinvolto nel malaffare? Malaffare che non è solo il grande furto di denaro pubblico, ma è la quotidiana indifferenza verso l’umano, il lasciarsi dettare l’agenda da un’ideologia, la volgarità cercata ed esibita per colmare il vuoto dei contenuti. È curioso osservare che mentre si combatte qualsiasi forma di autorità, mentre si proclama l’autodeterminazione perfetta, si invita a scartare «chi usa giudicare il prossimo». Come se le nostre strade fossero piene di giovani non erasmiani col ditino puntato e il sopracciglio alzato, come se ai potenti di oggi, che fanno matrimoni felici fra economia, finanza, comunicazione, cultura e informazione, interessasse davvero avere giovani dotati di rispetto per la dignità umana.

Il giudizio è la facoltà di discernere, strumento indispensabile per l’uomo che vuole rimanere libero. E per mantenere tonica questa facoltà occorre una coscienza attiva, capace di scegliere il bene anche quando comporta la perdita di qualche privilegio. Se la parola “giudizio”, in questi tempi di politicamente corretto, perde significato e diventa semplice sinonimo di “non condividere il pensiero unico dominante”, allora la libertà di pensiero e di parola è veramente in grave pericolo. E se il programma Erasmus si presta a questo scopo, allora è bene che i giovani lo sappiano. Speranza e libertà: non c’è furto più grande che gli adulti oggi possono farci. Giù le mani dalla nostra facoltà di giudicare perché, come scrive Oriana Fallaci raccontando la storia di Panagulis, è proprio questo l’argine all’abitudine. E l’abitudine: «è la più infame delle malattie, perché ci fa accettare qualsiasi disgrazia, qualsiasi dolore, qualsiasi morte. Per abitudine si vive accanto a persone odiose, si impara a portare le catene, a subire ingiustizie, a soffrire, ci si rassegna al dolore, alla solitudine, a tutto». Una situazione ideale per chi vuole diventare nostro padrone. Ma San Giovanni Paolo II ha visto in noi «le sentinelle del mattino in quest’alba del terzo millennio», e lo stupore del nuovo giorno è più forte di qualsiasi notte.