Perdonare e la grazia di capire

di Costanza Miriano

Sabato a san Pietro abbiamo ricevuto tantissimo su cui riflettere sul tema della confessione. Volevo aggiungere un mio contributo. La parte difficile non è solo chiedere perdono a Dio. Spesso è difficile per noi perdonare Lui, e gli altri, e noi stessi.

Ecco su questo un estratto del mio ultimo libro,

Il libro che ci legge (la Bibbia come mappa del tesoro), Sonzogno

 

Insomma, come dicevo, il primo passo per sciogliere questa morsa di male – che ci impedisce di addomesticare il cuore, nonostante con la testa abbiamo capito tutto – è perdonare Dio. Ma che vuol dire perdonare Dio? Come fai a perdonare l’Onnipotente che ti ha dato la vita?

E qui veniamo a un altro punto: fare pace con la propria storia. Abbiamo tutti qualcosa da ridire con Dio sulla nostra storia, finché non riceviamo la grazia di capire. Ho visto persone che ci sono riuscite. Che sono arrivate a dire: «Dio, mi hai fatto come un prodigio» (ecco che torna, il Salmo 139). In realtà, facciamo tutti fatica a dire così. Per cominciare, gran parte della cultura contemporanea è un continuo invito a pensare che tu sei uno schifo e che la vita non ha senso. Sulla prima affermazione potrei anche essere d’accordo, in un certo senso: siamo tutti nel guano fino al collo, eppure c’è una mano pronta a tirarci su; non perché lo meritiamo, ma perché ci vuole bene. Il problema è che questa mano è proprio di colui che la maggioranza della comunicazione e della cultura di oggi si affanna a tentare di cancellare. Poi c’è un elemento interno, che non proviene dal contesto culturale ed è molto più forte: non crediamo che la nostra storia sia perfetta per noi. Che quella famiglia, quel corpo, quelle possibilità di vita, quelle svolte che abbiamo avuto siano state pensate da Dio per incontrarci (e se non le ha progettate così, le ha sapute usare). E poi facciamo continuamente paragoni, anche con persone lontane. Cioè, voglio dire, potevi cavartela nel confronto con la Camilla, la bella della scuola – anche perché, diciamo la verità, sarà stata pure bionda, ma aveva le culotte de cheval – e ti barcamenavi abbastanza; poi, però, vedevi Il tempo delle mele ed era difficile non pensare che Sophie Marceau fosse trentasette volte meglio di te (e in quel caso non poteva consolarti nemmeno il nove alla versione: Camilla era una capra, ma Sophie era così bella che padroneggiare Tacito diventava un fatto irrilevante di fronte a lei).

Quanta gente passa da un’infanzia serena a una giovinezza arrabbiata perché scopre di non essere la migliore del mondo, e di non avvicinarsi neppure a certi modelli. Eppure, «ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere, tu mi conosci fino in fondo. Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro; i miei giorni erano fissati quando ancora non ne esisteva uno». Ci si può riuscire, anche nei casi in cui ci sarebbe di che discutere con Dio. Per esempio, potrebbe farlo Sofia. È nata con molti problemi fisici, e da quando ha pochi giorni entra ed esce dagli ospedali. La sua mamma è arrabbiata con chi le ha dato una figlia chiamata a soffrire, e quindi la critica in continuazione, e quasi le dispiace che sia venuta al mondo (abbiamo degli strani meccanismi per difenderci dal dolore). Inconsapevolmente ha tolto alla sua bambina le riserve affettive che, a lei più che ad altri, sarebbero servite per affrontare la vita. Eppure, tra un ricovero e l’altro, Sofia si è laureata in Medicina; trova le forze per aiutare i suoi pazienti, fa spazio per tutti i bisogni che incontra; non ha potuto avere figli, ma un ragazzo davvero stratosferico si è innamorato di lei e l’ha sposata, pur sapendo che ogni tanto avrebbe passato

un po’ di tempo in ospedale. Perché Sofia ha una luce dentro, emana un calore, ha una tale capacità di fare spazio che chiunque la incontra vorrebbe stare almeno un po’ di tempo con lei. Il suo segreto è che ha deciso di perdonare Dio per la sua malattia. Nel senso che, quando capisci che lui è il progettista e tu il progetto, smetti di domandarti perché a me?, e cominci a chiedere aiuto per essere fedele a quel progetto.

Lo capisci subito, quando incontri uno che ha fatto questo passaggio, che ha compreso questa cosa della vita: sa di essere un progetto e vuole vivere all’altezza.

Alcune persone sono vive, altre morte anche se deambulano (e, mi permetto di dirlo, guidano e mi fregano il parcheggio: non per dare suggerimenti a Dio, ma magari potrebbe dare una sfoltita ogni tanto).

Il secondo passo del perdono è perdonare gli altri, a partire dai genitori. Ora, dimmi come si fa ad amare una madre che si lascia sfuggire, anche se in un fugace momento di rabbia, che avrebbe preferito tu non nascessi. Sofia ci è riuscita, quando ha capito che la sua mamma era solo una persona con le spalle non tanto larghe, che la amava tantissimo e non reggeva la sofferenza di vederla soffrire. Spesso la cattiveria

è debolezza. La madre di Sofia era rimasta orfana da piccola: si era rimboccata le maniche e aveva tirato su i fratellini, fino all’arrivo di una zia buona, ma decisamente poco affettuosa. Aveva retto così tanto dolore e durezza che le sembrava di non avere più nessuna riserva. Non aveva incontrato davvero chi riempie ogni cuore, chi restituisce le scorte, chi rende capace di amare anche chi umanamente ha ricevuto poco o niente.

Infine, il terzo passo del perdono è perdonare se stessi – che, contrariamente a quanto si pensa, è la parte più difficile. Siamo noi il giudice più spietato di noi stessi – o meglio, è dentro di noi la voce dell’accusatore che ci ricorda per filo e per segno tutto quello che abbiamo fatto, che non è vero che qualcuno può volerci così tanto bene da perdonarci davvero tutto tutto, e che comunque, alla fine, non è che siamo poi gran che. La rappresentazione plastica, per me, è quella di una figlia adolescente che svetta come un altissimo ramo fiorito, la pelle tesa come un tamburo, gli occhi accesi pieni di attesa per la vita, bellissima dentro un paio di jeans che io al massimo potrei usare come guanto, che viene da me e mi dice: «Oddio, guarda! Hai visto?» E tu vai nel panico perché non sei preparata all’interrogazione a sorpresa, e non hai visto niente, mentre lei si indica un minuscolo, impercettibile accenno di brufolo in fronte, nascosto dai capelli e da due strati di correttore Ysl (che peraltro sarebbe mio, ma non sottilizziamo). È un prodigio di bellezza, e l’unica cosa che riesce a vedere di sé è un brufolo che è dovuto venire un nucleo del Ris col microscopio per individuarlo.

Quando sappiamo di avere peccato, ci sembra che niente, nessun bene che facciamo possa cancellarlo. La voce di radio Satana ti dice che forse puoi fregare gli altri, ma lui non lo freghi: tu fai schifo. (Comunque, che sia un brufoletto o un’escrescenza grossa come una pagnotta, noi abbiamo l’arma letale: la confessione. Volendo, pure la confessione generale, in cui si può consegnare il male di tutta una vita, anche quello lontano e magari già confessato, se ci sembra di non esserci perdonati; i peccati, i momenti brutti, quello che abbiamo subito, quello che non funziona: le pulizie di Pasqua dell’anima. Dopo si torna a respirare a pieni polmoni!)

Anzi, usando Sofia come paradigma, direi che la sua storia raccoglie tutti i passi del vero, profondo e totale perdono che ti permette di non tenere il broncio e di mandare a quel paese i complessi; quello che ti libera e ti rende capace di vivere la vita in modo diverso: «in missione per conto di Dio», il quale poi si mette in missione per conto tuo, e a quel punto è fatta.

(…) Il punto del cristianesimo è che il tuo io profondo, quella specie di Mister Hyde con cui litighi, ti offendi e ti arrabbi – come diceva sempre padre Emidio – diventa il terreno dove lo spirito riesce a far spuntare e maturare Gesù.