Ragionare di emigrazioni oltre l’emotività

di Costanza Miriano

Qualche tempo fa una persona, che peraltro stimo davvero e che mi è molto, molto simpatica, mi ha espresso il suo rammarico perché ho dato alla Chiesa (“istituzionale” ha detto lui) dei soldi – una bella cifra – che avevo raccolto (e c’era anche la sua donazione).

“Non è che verranno usati per i migranti?” – mi ha chiesto. “Lo sai che siamo circondati da famiglie del posto che sono quasi alla fame, e nella Milano da bere, non chissà dove? Una ne abbiamo accolta in casa, ma siamo esasperati da questa situazione, e non sappiamo più da che parte girarci”.

Prima che qualcuno possa inveire contro di lui vorrei ricordare che il mio amico, a differenza di tanti che pontificano sui “migranti” (di qui in poi immigrati, perché le parole sono importanti) si è rimboccato le maniche e ha aperto le porte di casa a una necessità concreta, al suo prossimo – letteralmente, cioè alla persona più vicina che aveva – che nella fattispecie era una persona italiana con problemi economici. Vorrei dire al mio amico che capisco il suo smarrimento verso una sorta di esasperazione di alcuni temi e di silenziamento di altri. Vorrei ricordargli che a volte dipende anche dal mondo della comunicazione che continua ad alzare o abbassare la levetta del volume al Papa a seconda di quanto serva a una narrazione tutta politica e pochissimo spirituale (spesso tg e giornali decretano che “non c’è pezzo” sul Papa, e sono magari le volte in cui fa le catechesi più belle, almeno secondo la mia sensibilità, ma meno notiziabili).

Sul dare i soldi alla Chiesa vorrei tornare poi, ma prima di tutto non si può tacere il fatto che la questione dell’immigrazione continua a essere usata in modo se va bene emotivo, sennò strumentale, usando le vicende degli immigrati in modo personalistico, per scambi di accuse, per propaganda, per bandiera. E devo dire che a volte anche qualche sacerdote che ha sostituito l’ideologia alla fede, a un rapporto vivo col Signore, sembra un operatore sociale, e aumenta lo smarrimento, a volte il dolore, nei fedeli.

Come mettersi con intelligenza – sommo dono di Dio, obbligatorio usarla – davanti a tale questione? Siamo di fronte a un fenomeno di proporzioni mondiali, e con qualche ingerenza molto potente, con molte violenze e sfruttatori e veri e propri criminali. Non si può affrontare in modo sentimentale. Non regge dunque la narrazione corrente “persone povere che raccolgono i loro averi nel fagottino e vengono a cercare lavoro qui dove noi a causa della nostra cattiveria non glielo diamo”; come non regge l’equazione “se apriamo i porti tutto si avvia a una soluzione, se li chiudiamo la gente muore in mare”, come mostrano i dati che dicono che con i porti chiusi le vittime sono oggettivamente di meno (sebbene anche sui dati incrociati tra morti e traversate tentate ci sia una certa imprecisione). Certo, dal nostro punto di vista di cristiani non regge neppure il “chiudiamo i porti e il problema non ci riguarda”, ma questa è una questione personale che non può coinvolgere scelte politiche. Cioè, lo Stato deve tutelare se stesso, i cristiani invece la propria vita la perdono per Cristo, ma sono due piani completamente diversi: lo Stato non può per legge obbligare alla carità, che se non nasce da un incontro personale che ti sfonda il cuore diventa ideologia (qualcosa del genere hanno provato a fare i regimi comunisti, e sappiamo come è finita). Il mio amico dà la sua casa in nome di Cristo, non perché espropriato dei suoi diritti, ed è tutto diverso.

Io non so quale sia la soluzione a livello globale, e concedo il beneficio della buona fede – fino a prova contraria – a tutti quelli che provano a occuparsene, a questo come ai precedenti governi. Ma le cose non sono sempre raccontate in modo trasparente (gli accordi firmati dall’Italia sui porti aperti in cambio di flessibilità da parte dell’Ue, per esempio, non sono stati esplicitati, mi pare) e soprattutto non sono facili da gestire. Ci sono di mezzo interessi e catene di sfruttamento, maltrattamenti indicibili a cui nessuno dovrebbe essere sottoposto, tanto meno per andare a cercare un lavoro (che non c’è). So però che ogni volta che si prova a spezzare il circolo dell’emotività si prendono botte da tutte le parti.

Quando Famiglia Cristiana, nell’agosto scorso, fece la famigerata copertina Vade retro Salvini, io scrissi un post in cui raccontavo che il mio padre spirituale una volta mi aveva proibito di accogliere in casa un ragazzo molto problematico – e violento – perché avevo i miei quattro bambini da custodire; lo dicevo per spiegare che ci vuole intelligenza nella carità e una gerarchizzazione delle priorità. Non avrei fatto la madre se avessi fatto la missionaria. Va bene l’ho detto in modo un po’ colorito, ma mi sono presa una rappresaglia dalla san Paolo, che inizialmente ha scelto di non distribuire più i miei libri, ma che tuttora perdura, sebbene con uno “sconto della pena” (i miei libri sono in vendita, ma non più esposti in bella vista da quel momento, come invece era da anni).

Con lo stesso spirito, e per amore verso il Papa, ho cercato di ragionare invitando alla calma anche quando venne mostrata a Francesco la vignetta col bambino morto con la pagella cucita nella giacca, vignetta che era diventata lo sfondo della campagna del PD noi siamo diversi. Ho ricordato, come altri, che quella storia, indiscutibilmente straziante, risaliva però al 2015, quando al governo c’era il PD, e quindi il noi siamo diversi suonava a dir poco stonato. Stonatissimo poi tirare dentro il Papa in questa vicenda, senza dargli tutte le informazioni del caso. Anche lì apriti cielo: tu stai con Salvini, tu attacchi Renzi. È evidente che dire che un bambino “muore a causa di un porto aperto” sarà anche una frase iperbolica, ma è chiarissimo che si riferisce all’effetto di una certa politica, non di un comportamento personale. Perché non si può mai ragionare sui fatti – i morti in realtà aumentano, o diminuiscono? Come si può tamponare una situazione lontana senza andare oltre i limiti di criticità locali? Come lo si può fare senza logiche di appartenenza o di accuse personali?

Io semplicemente, da cristiana e da giornalista che cerca di farsi un’opinione, e anche di formarla – è il mio lavoro – vorrei rompere certi cortocircuiti mediatici, le mode dell’informazione (ma è mai possibile che Saviano mentre Notre Dame è consumata dal fuoco dice che il dramma invece sono i morti in mare? Non si può dire che sono drammi entrambi? E se scatta il benaltrismo, allora che diciamo dei venti cristiani uccisi ogni giorno, ogni giorno, nel mondo, con 245 milioni di cristiani perseguitati adesso, oggi?)

Ogni tanto l’informazione prende delle onde, non del tutto casuali, che sarebbe nostro dovere spezzare, mettendo dentro i fatti. Il problema è che se si va per onde emotive non si ferma la marea, anche grazie a una certa pigrizia intellettuale della mia categoria. Di una emotività non suffragata dai fatti, per fare un esempio, si è in grandissima parte alimentata la campagna sui cosiddetti diritti civili, incentrata – secondo la vulgata – sui diritti che fino a quel momento erano stati negati alle persone omosessuali, “discriminate e brutalizzate” – non a caso negli Usa tutta la battaglia è nata creando a tavolino la campagna mediatica dell’omofobia, per nulla suffragata dai dati attuali. La verità, ho cercato di dirlo quasi urlando anche qualche sera fa a Povera patria, è che tutti i diritti i conviventi già li avevano, indipendentemente dal sesso, compresa la possibilità di andare a farsi visita in ospedale, in carcere o di godere del programma di protezione per i pentiti. Poiché non si poteva vincere la battaglia tenendola sul piano dei diritti, si è spostata la cosa sul piano sentimentale. Quando andavo in tv a parlarne e in risposta mi facevano vedere due uomini che si baciavano, e la conduttrice diceva “poverini, glielo vuoi negare?”, come fare a riportare la discussione su un piano elementare di comprensione della realtà? Conoscete qualcuno in Italia (non in Oman) che vuole negare a due uomini di baciarsi? Tutti i diritti riconosciuti con le unioni civili già c’erano, tranne l’adozione e la reversibilità della pensione, che infatti non ci sono ancora (vorrei anche ricordare, per esempio, ai miei colleghi che le due donne della marina militare qualche settimana fa non si sono “sposate” come è stato ripetuto a pappagallo in articoli e servizi, ma  si sono unite civilmente, perché in Italia il matrimonio egualitario non c’è; ancora una volta, le parole sono importanti). In realtà sappiamo tutti che per le persone con attrazione verso lo stesso sesso la posta in gioco è il piano del simbolico e della percezione culturale.

Allo stesso modo quando si parla di immigrazione in gioco non c’è il benessere delle persone ma una visione del mondo.

Per questo a volte capisco il disagio che provano tanti buoni e generosi cristiani nel vedere la convergenza tra impegno per chi è in difficoltà (e tantissimi cristiani si spendono davvero per il prossimo, ma tanto), e ideologia di un nuovo umanesimo ateo – spesso ecologista –  totalmente privo di dimensione trascendentale.

Questo però non ci deve riguardare, per fortuna a noi è chiesto molto di meno, ma anche molto di più: amare e basta, amare la Chiesa che è più che madre, amare il Papa che ci porta a Cristo e ne è il Vicario. Amarlo perché è Lui che ce lo ha chiesto. Amarlo anche quando viene usato politicamente. È la nostra obbedienza che rende buona la nostra appartenenza alla Chiesa anche quando ci sembra che ci sia confusione (molta indotta da altri), anche quando non capiamo, anche quando sacerdoti e vescovi ci fanno soffrire, così come in santa Rita l’obbedienza alla superiora che le diceva di annaffiare il bastone rendeva buono il suo gesto. Infatti dal bastone sono spuntate le rose. Dalla nostra obbedienza la vita eterna (che è molto di più della giustizia sociale).