“Ragioni di Sicurezza”

Riceviamo da una Volontaria Per La Vita

Su Avvenire del 27 agosto 2020, Angelo Moretti, dirigente del consorzio “Sale della Terra” collegato alla Caritas diocesana di Benevento, dice – non contraddetto – che la legge 194 “non è una legge contro la vita e può essere accettata dai cattolici”, e poi che “la 194 non mette in discussione la dignità ontologicamente intrinseca di un embrione”.

Senza chiamare in causa Giovanni Palolo II e la dottrina sociale della Chiesa, è più che sufficiente dare un’occhiata veloce all’esperienza delle persone che ci stanno intorno per mostrare la falsità di queste proposizioni.

Nel momento in cui lo stato ha regolamentato un male (non “un fenomeno”, come dice Moretti), in men che non si dica è cambiata la mentalità, la vita è diventata disponibile nella testa delle persone e la dignità di persona umana del concepito è andata subito a farsi benedire.

Certo, nel 1978 la legge 194, a parole, sembrava aver ben chiaro che l’aborto era un brutto affare ed era tutto sommato meglio evitarlo. Ma quasi subito tutto questo è sparito e l’aborto non è più stato una questione di sofferenza e difficoltà, ma è diventato una problema di libertà. Lo vediamo: quando un’amica, una collega, una compagna sta pensando all’Ivg, la maggior parte delle persone sa subito che cosa dire, per essere di conforto: “sentiti libera di scegliere, io ti appoggerò qualunque cosa tu decida di fare”. Nulla di più, perché sarebbe ingerenza. A quel punto la poverina ne saprà quanto prima, su come destreggiarsi nell’immane difficoltà che le si è presentata, però è assolutamente libera e questo è l’importante

In realtà, però, quel che è stato conquistato con questa legge non è l’ideale dell’emancipazione, non è l’autodeterminazione della donna, non è la tutela della sua libertà. No, l’utero è mio e me lo gestisco io è stata solo una bandiera sventolata per un po’. Il vero frutto della 194, il cambio di mentalità che si è incistato nelle menti come un virus è stata la comodità: l’estrema comodità di potere, in un groviglio di problemi, togliere di mezzo il fattore più piccolo, meno visibile e meno capace di protestare. L’estrema comodità per chi dovrebbe prendersi cura – marito, genitore, medico, Stato…-  di non dover intervenire sul cuore, sull’educazione, sulla povertà, sulla casa, sulla violenza, sugli affetti ma solo su poche cellule, in pochi giorni, senza conseguenze apparenti. La coscienza a posto per aver tolto di mezzo un pezzettino del problema, che solo una  prospettiva rasoterra fa sembrare il più grosso, e avanti il prossimo.

Più di una donna mi ha raccontato di essere uscita dal ginecologo con il certificato per l’aborto in mano, senza averlo mai veramente richiesto. Ma è stato quando ho conosciuto V., dalla Bolivia, che  ho avuto la più evidente delle conferme di questo automatismo, in cui la sofferenza o la libertà della donna non c’entrano assolutamente nulla.

Quando la incontro, V. vive da tempo con un uomo violento e oppressivo, probabilmente con affari ai limiti della legalità. Lui la svaluta, la insulta, la costringe a vestirsi come vuole lui, mangiare quel che vuole lui, vedere chi vuole lui. Talvolta alza le mani. Lei sopporta, forse è innamorata, forse crede che sia normale; certamente lui è il suo unico mezzo di sostentamento, in Italia; anche la sua posizione come immigrata, infatti, non è del tutto a posto. Quando resta incinta, ogni conflitto si inasprisce. Lui rifiuta il bambino, poi dice che glielo toglierà, poi ancora minaccia di farla abortire a calci. Lei trova rifugio in una casa famiglia, poi torna da lui. Ma lui quindici giorni dopo la caccia di casa di notte, mentre piove. E’ un groviglio di fragilità e tensione devastante che si trascina a lungo, finché i due, a quarto mese di gravidanza inoltrato, approdano a un consultorio.

La ginecologa li vede e fa presto a capire la situazione di sopraffazione in cui la donna si trova; le risulta subito evidente che questo figlio è una miccia accesa in una polveriera. Allora stila un certificato dove si richiede urgentemente un aborto dopo il termine dei 3 mesi.

Sul modulo, in carta mal fotocopiata, c’è la scritta “Osservazioni” seguita da una riga continua su cui la dottoressa ha scritto a mano “si invia [ad abortire ndr] per particolari condizioni di sicurezza per la paziente”.

L’aborto dopo i tre mesi non è così facile da ottenere, è solo per “accertati processi patologici” del feto o per “un grave pericolo per la vita della donna”. Sono certa che chi ha scritto questo nella legge, per quanto intriso di cultura di morte, pensava ad un pericolo inerente a una patologia. Magari psichica, magari indefinibile, ma a una patologia. Che qui non c’è. C’è una donna debole e le minacce di un mezzo criminale.

Quello che ha fatto questa dottoressa è stato predisporre l’eliminazione del figlio per appianare un po’ il conflitto, per tirare in lunga una storia nata male. Voleva fare proprio questo? Non credo, non so, ma lo ha fatto: ha riconsegnato una donna fragilissima al suo carceriere.

La dignità intrinseca dell’embrione”, che per Moretti su Avvenire sarebbe ormai tanto scontata per tutti, non viene più nemmeno immolata all’idolo della libertà della madre, come credevamo, ma viene servita in automatico e in maniera illogica agli ingranaggi della comodità e della praticità.

La 194 non può essere accettata dai cattolici, ma se questi sono i suoi frutti assurdi, neanche da nessuna persona umana razionale.

 

PS: la buona notizia è che poi, alla fine, la bambina di V. è nata. Si chiama Belen e un piccolo barlume di gioia nella vita sempre difficile della sua mamma l’ha portato. Ma questa è un’altra storia.