Tenete l’antica strada e fate vita nuova

di Luca Del Pozzo

Ci sono libri che si leggono per svago, altri per interesse culturale o per lavoro, altri ancora perchè fanno bene all’anima. E perchè ciò che raccontano è tanto vero e bello da trascendere l’esperienza personale di chi li scrive per assumere un significato universale. Questo è il caso di Tornare al centro. “Tenete l’antica strada e fate vita nuova”, ultima fatica letteraria di Rosanna Brichetti Messori (Ares edizioni). Il titolo non inganni: quel “tornare al centro” non ha nulla a che vedere con qualvoglia discorso attorno ad un “centro” di tipo politico. Esso indica piuttosto di fronte alla crisi in atto nel cattolicesimo la “cura”, ciò che davvero conta per la vita dell’Autrice in primis e, partendo dalla sua esperienza, per questo tempo travagliato che la Chiesa (e non solo) sta attraversando.

Lungi dal rappresentare una prospettiva di mera conservazione o di velleitaria riproposizione di una cristianità che mai tornerà, “tornare al centro” vuol dire assumere fino in fondo la realtà così come essa è ponendosi nell’unico atteggiamento capace di fare la differenza: quello della costante conversione personale. Allora, e solo allora, e sempre che sia questa la volontà di Dio, anche il mondo circostante cambierà nella misura in cui vorrà accogliere il Vangelo. Ma “tornare al centro” è anche il significato della bellissima frase di S.Angela Merici posta in exergo e nel sottotitolo, laddove “Tenete l’antica strada e fate vita nuova” riecheggia – in linea con la legge per eccellenza del cattolicesimo, quella dell’”et-et” dove tutto si tiene – la parabola evangelica dello scriba che “divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52).

“Cose nuove e cose antiche”: ogni vera riforma, a ben vedere, è sempre e soltanto unione ed equilibrio di rinnovamento e tradizione, di riscoperta e attualizzazione nell’oggi di ciò che è eterno e, perciò, indisponibile alle mode del momento, senza che vi sia alcuna contraddizione tra i due poli. Insomma: la fede non è mai qualcosa di statico bensì di dinamico, che va di volta “incarnata” innanzitutto a livello personale dando vita a forme diverse di cristianità. E’ la stessa dinamica che, muovendo da altra prospettiva, aveva messo a fuoco uno dei più grandi filosofi cattolici del ‘900 italiano, Augusto Del Noce, parlando del carattere “autobiografico” che ogni filosofia deve avere: “…il pensare in rapporto all’attualità storica – scriveva Del Noce nella sua opera più famosa, Il problema dell’ateismo – non è negare l’eternità dei problemi metafisici, ma riconoscerla nel loro senso vero…Non ho davanti a me una sorta di elenco di problemi già risolti…; è al contrario nel processo personale di soluzione del problema metafisico, che riconosco nella mia tesi l’esplicazione di una «virtualità» di una affermazione già sostenuta in passato; ed è proprio in questa «esplicazione di una virtualità» che la tesi metafisica mi diventa «evidente», liberandosi della sempre contingente forma che aveva assunto nelle sue formulazioni storiche”.

Tornando al libro in questione, il principale (non l’unico) motivo di interesse di Tornare al centro consiste appunto in questo suo presentarsi come una riflessione autobiografica sapientemente e, direi, umilmente intrecciata con la più ampia storia della chiesa nel XX secolo e in questo scorcio del Ventunesimo. Seguendo l’Autrice nelle sue vicende umane e spirituali è possibile confrontarsi con gli snodi essenziali che hanno caratterizzato la storia del cattolicesimo nel ‘900, e viceversa. Il risultato è un libro godibilissmo e di grande valore, agile e semplice nella lettura ma al tempo stesso dalle solidissime fondamenta storiche e teologiche (per inciso: merce rara, di questi tempi; ciò che va a tutto merito dell’Autrice). La storia ruota attorno a due grandi snodi, due fasi della vita spirituale della scrittrice che hanno corrisposto ad altrettanti “incontri ravvicinati” con quel Cristo che fin dalla nascita è stato una presenza costante nella sua vita, seppur con forme e modalità tutte Sue. Non per nulla uno degi autori più citati è quel Pascal che disse “C’è abbastanza luce per chi vuol vedere, ma anche abbastanza tenebre per chi non vuol vedere”.

Il primo snodo è quando, ancor giovane, Rosanna Brichetti fece quella che potremmo chiamare, fatte salve le ovvie differenze, l’”esperienza di Giobbe” narrata nell’omonimo libro (in particolare Gb 42,5). Il passaggio cioè da una conoscenza di Dio “per sentito dire” ad una conoscenza di Dio di persona, faccia a faccia, concreta ed esistenziale. Laddove il “per sentito dire” sta ad indicare una fede ridotta a morale, eredità di un mondo che certamente viveva – per dirla con Benedetto XVI (altro protagonista del libro) – come se Dio esistesse, essendo un mondo dove ogni singolo aspetto della vita, dalla nascita alla morte, era naturaliter impregnato di Dio, ma che tuttavia non aveva solide fondamenta. “Ero sostanzialmente una «brava» ragazza – dice Brichetti Messori – certamente sensibile ai «valori» che mi avevano inculcato in tanti anni di educazione cristiana. Valori che avevo assimilato e che mettevo in pratica. Quello che invece era fragile, era il terreno su cui questi valori si innescavano, cioè la fede da cui derivava la visione cristiana del mondo che mi portavo appresso”. A scricchiolare sotto i colpi di una società che stava cambiando vorticosamente sotto la spinta della secolarizzzione all’epoca (siamo nel 1962) incipiente, era insomma la fede, quella fede forgiata all’interno della cristianità tridentina che stava crollando. Aperta parentesi. Avviso ai lettori: chiunque cercasse nelle pagine di Tornare al centro un qualsivoglia appiglio per denigrare il Concilio di Trento e tutto ciò che da quel Concilio è uscito e da esso è stato plasmato nei secoli successivi, si metta fin da subito l’anima in pace perchè resterebbe tremendamente deluso. Non vi è infatti alcuna acredine nè astio nè nulla, nelle pagine in cui l’Autrice rievoca il mondo, la societas catholica in cui nacque e crebbe fino ai vent’anni. Al contrario, tanta è la grazia letteraria – che non vuol dire cecità di fronte ai pur ingombranti limiti – con cui quel mondo viene narrato, che a stento si può non piangere guardando alle rovine di oggi a confronto con la bellezza di allora. Pur, ripeto, con tutti i suoi limiti e senza indulgere in sentimentalismi nostalgici che poco o nulla hanno a che fare con l’”oggi” della fede.

Insomma non solo il Concilio di Trento, scrive l’Autrice, è stato “ingiustamente demonizzato dalla storiogtrafia laicista” mentre “in realtà è stato un Concilio assai opportuno che è riuscito a realizzare ciò che si riprometteva” nonchè un “evento che ha ricompattato la Chiesa, riconfermato la fede cattolica, riadattandone anche la struttura organizzativa per sostenerne la missione evangelizzatrice”; ma tutta intera la cristianità tridentina da esso scaturita è stata “un’epoca benemerita di cui solo chi è privo di senso storico potrebbe ignorare i meriti”. Chiusa parentesi.

Ciò che stava accadendo in quel tempo ad una giovane studentessa universitaria che aveva lasciato il paese natio e la “bolla cattolica nella quale ero cresciuta” per approdare a Milano e “muovere i primi passi in un ambiente laico e in qualche modo pluriculturale”, era la presa di coscienza che le scelte morali che tutti prima o poi sono chiamati a fare, sono tanto più forti e coerenti quanto più lo sono le scelte di fede. In un frangente storico in cui si cominciava a sentire la pressione esterna da parte di una società che si stava secolarizzando, “la mia fede sociologica – ricorda l’Autrice – cioè ereditata per nascita e appresa per educazione, stava per essere messa alla prova”. In che senso? Nel senso che “Non ero atea e nemmeno agnostica, Credevo in Dio, ma mi interessava poco o niente pensare a lui e parlare di lui. Oltretutto, ero interiormente stanca del contesto un po’ chiuso e moralista nel quale mi ero a lungo trovata a vivere”. Stava insomma venendo al pettine uno dei problemi da sempre più disputati in ambito teologico, quello del rapporto tra fede e morale. Problema rispetto alla quale l’Autrice non ha dubbi: “Prima vengono le scelte di fede. Se queste sono forti e libere, se cioè la fede è una adesione sentita di tutta la persona, mente e cuore a Dio, allora anche le scelte morali saranno coerenti; pure quando sono impegnative e difficili come quelle proposte dalla morale cattolica o non sono di moda e ci si muove in un ambiente ostile”. Parole queste che andrebbero lette e meditate a fondo dai tanti sedicenti esperti di morale (chierici e non) che soprattutto negli ultimi anni sono tornati a battere compulsivamente la grancassa delle opere, del fare, della prassi contrapposta alla dottrina (manco a dirlo intesa come un qualcosa di astruso/astratto). É vero, S. Giacomo ci ricorda che la fede senza le opere è morta in se stessa. Ma nel giusto ordine. Prima la fede, poi tutto il resto. Altrimenti il rischio che la Chiesa si riduca ad una onlus è dietro l’angolo.

Tornando al libro, è proprio nel momento in cui sotto la spinta di un mondo a suo modo fascinoso che stava mostrando tutta la fragilità di una fede “sociologica”, proprio in questo frangente Dio si manifesta. Il come lo lasciamo alla curiosità di chi vorrà leggere il volune; qui basti sapere che un giorno preciso di quel 1962, nella cripta del santuario mariano della Madonna delle Lacrime di Treviglio dove l’Autrice si era raccolta in preghiera, avvenne l’inatteso. Un’esperienza letteralmente sconvolgente e che segnò quello che Brichetti Messori chiama il “risveglio” della fede, cui fece seguito la prima vera “conversione” del cuore. Quel fatto, come si è già accennato, segnò il passaggio da una fede “teorica” in un Dio conosciuto a livello dottrinale, ad una fede “storica”, cioè esistenziale, concreta. “Ero una credente, anzi, istruita più di altri perchè avevo frequentato scuole cattoliche…Però, ora mi accorgevo che avevo immagazzinato quelle informazioni come ogni altra nozione di ogni altra materia…ma che all’appello era sempre mancato il cuore”. Bene, tutto a posto e fine della storia? Non esattamente. Perchè di lì a poco ecco la seconda crisi, il secondo grande snodo nella vita spirituale dell’Autrice. “Il pericolo che ho corso…è stato quello di ridurre di nuovo la fede…a una piccola fede asfittica”. E per charire ancora meglio il concetto Brichetti Messori usa un’espressione che sicuramente farà inarcare più di un sopracciglio e farà strappare più di d’una veste in tanti ambienti sedicenti cattolici: “…ho rischiato di diventare una «cattolica adulta»”. Non solo. “«Adulta», in realtà, per qualche anno lo sono stata davvero. Tanto che, se non fosse intervenuto nuovamente un aiuto dall’alto, avrei rischiato di restare tale per sempre. Un’esperenza che si è rivelata dolorosa, ma che riconosco provvidenziale, perchè credo che mi abbia vaccinata per la vita contro i tanti virus anticristiani che oggi circolano abbondanti anche all’interno della stessa cristianità”.

Non credo servano ulteriori commenti. Cos’era successo? In estrema sintesi, dopo la laurea e proprio negli anni in cui si stava svolgendo il Concilio l’Autrice, spinta dall’esigenza interiore di approfondre quella fede che aveva riscoperto, era entrata in contatto tramite l’esperienza della Pro Civitate Christiana di Assisi con quella che all’epoca era ritenuta, e a ragione, l’avanguardia teologica, il fior fiore del rinnovamento biblico e teologico in grado di offrire “un modo di avvicinarsi alla fede che in un certo qual modo anticipava quel Concilio che stava svolgendosi…”. Ora il punto è che a fronte di un approccio sicuramente affascinante, c’erano anche “aspetti pericolosi”. Col risutato che – in assenza di qualcuno che aiutasse a filtrare e discernere cosa stava accadendo nella Chiesa in quel tempo – “non solo noi giovani ma l’intera comunità…fosse investita e fortemente turbata da quel sommovimento post conciliare che, seppure con alti e bassi, perdura tuttora”. Sommovimento post conciliare che, è bene precisarlo a scanso di equivoci, l’Autrice non attribuisce affatto al Concilio Vaticano II in quanto tale, come suole fare certo tradizionalismo che sembra ancora non aver fatto i conti col fatto che la storia si divide in prima e dopo Cristo e non in prima e dopo Trento. Al contrario, per Brichetti Messori il Vaticano II “è stato fondamentale”, unitamente alla convinzione che “in un evento così importante non siano mancati l’intervento della provvidenza e l’assistenza dello Spirito Santo”. Soprattutto, il Vaticano II è stato fondamentale perchè “mi ha consegnato una fede che aveva ritrovato quel dinamismo quella vitalità che possiede sempre in se stessa ma che si era, amio giudizio almeno, opacizzata”. Nè tanto meno, e questo è l’altro aspetto della questione, può essere addebitato al Vaticano II il venir meno della cristianità tridentina sotto i colpi della modernità, a motivo di un atteggiamento troppo ottimista e troppo disponibile nei confronti della modernità stessa di cui il Concilio si sarebbe fatto promotore. Le radici del crollo della fede e dello smottamento della morale che ne è seguito (a tutti i livelli) sono da ricercarsi altrove.

Da un lato, nella forte spinta esterna esercitata dalla modernità (che, va pur detto, al tempo del Concilio non aveva ancora rivelato appieno la sua portata rivoluzionaria, che solo con il ’68 toccherà l’inizio di un punto di non ritorno), per il combinato disposto rappresentato dalla Riforma protestante e dall’Illuminismo, con la loro affermazione di un Io ultimamente autosufficiente e che non riconosce alcuna autorità al di fuori della propria coscienza e ragione (ciò che, in ambito teologico, corrisponde alla definizione dell’essenza stessa del peccato originale nella misura in cui l’uomo si erge a dio di se stesso decidendo lui ciò che è bene e ciò che è male); dall’altro, e soprattutto, nella debolezza e nella fragilità interna di quello stesso apparato uscito e forgiato dal Concilio di Trento, e che nel corso dei secoli non era stato in grado di arginare i sommovimenti interni che poi, alla prova dei fatti, lo avrebbero distrutto. Primo fra tutti, l’eresia che va sotto il nome di Modernismo, e che nonostante la condanna di s. Pio X con l’enciclica Pascendi Dominici gregis, “si dice che eserciti ancora influenza in alcuni settori ecclesiali o, quantomeno, abbia gettato la sua lunga ombra sul Concilio e anche – e forse soprattutto – sull’attuale, ancora dfficoltoso post Concilio. All’esame di tali tematiche l’Autrice dedica tutta la parte centrale del volume, e ad essa rimandiamo per chi vorrà approfondire. Il punto che qui interessa segnalare è piuttosto l’approdo, il punto d’arrivo di un’analisi che – distanziandosi tanto dalla lettura tradizionalista quanto da quella progressista della modernità, del Concilio e del post Concilio – si pone nel solco della migliore teologia della storia. Nel solco cioè di una visione che incardina le vicende e gli accadimenti nell’orizzonte della storia di salvezza che Dio ha fatto e continua a fare. Non per nulla le figure che più aiuteranno l’Autrice a superare la fase del “cattolicesimo adulto” e a neutralizzare il virus modernista in esso insito, saranno il suo futuro (all’epoca dei fatti) marito, Vittorio Messori, grazie all’impagabile lavoro alla riscoperta della ragionevolezza e della fondatezza anche storica della fede che tanto la aiuterà a spogliarsi “dei pregiudizi di cui mi ero caricata nel corso degli anni e che mi impedivano di vedere la realtà nella sua completezza; e il padre barnabita Antonio Gentili, che ebbe invece un ruolo cruciale nel processo di maturazione spirituale, interiore della fede che si accompagnò a quello, per così dire, più teologico e culturale visto poc’anzi (da segnalare in particolare le pagine dove l’Autrice riepercorre la dolorosa vicenda per cui lei e Vittorio Messori dovettero attendere venti anni prima di potersi sposare, vivendo castamente in obbedienza alla Chiesa; pagine che alla luce di quanto sta accadendo oggi restituiscono una fotografia fin troppo nitida dello sbandamento che c’è oggi nella Chiesa della misercordia cosiddetta). Fu così che avvenne una nuova conversione, un nuovo “incontro ravvicinato” con Gesù Cristo che le diede forza e luce non solo per riprendere il cammino ma anche per saper leggere in profondità e trovare speranza in rapporto anche alla situazione in cui versa il cattolicesimo contemporaneo.

Ed è qui che entra in gioco, lo avevamo indicato all’inizio tra i protagonisti del libro, Joseph Ratzinger. Nonostante il superamento della prova del “cattolicesimo adulto” altre nubi si stavano addensando. Questa volta rappresentate dal riacutizzarsi, in questi ultimi anni, dello scontro tra “progressisti” e “conservatori” con il Vaticano II a fare da punching ball venendo strattonato da una parte e dall’altra. Segno evidente che il passaggio dalla cristianità tridentina a quella del Vaticano II non solo era di là da venire ma, cosa più grave, è emersa “la presenza di piaghe che, nel frattempo, si erano ulteriromente lacerate al punto da far presagire addirittura eresie e scismi non proclamati, ma che già covavano sotto le ceneri”. E anche qui i riferimenti all’attualità non mancano. Ma ecco che in questo subbuglio interiore arriva inatteso un aiuto da Joseph Ratzinger. In particolare, dal documento conosciuto come la “profezia di Ratzinger” sulla Chiesa. Si tratta com’è noto di una serie di lezioni radiofoniche tenute nel 1969 dall’allora giovane teologo e futuro Pontefice, concluse appunto da una “profezia” che, riletta a distanza di oltre mezzo secolo, dice della straordinaria lungimiranza del giovane Raztinger. In essa infatti è descritta una Chiesa che sarebbe stata travolta da una grande crisi, il cui ruolo e il cui peso nella società sarebbero stati fortemente ridimensionati. Ma da questo travaglio sarebbe emerso un “resto”, una Chiesa purificata che avrebbe riscoperto l’essenziale ossia la fede nel Dio Uno e Trino. E che sarebbe ripartita da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza di fedeli con al centro la preghiera e la fede, appunto. La lettura di questa “profezia”, se da un lato procurò turbamento per l’esattezza delle sue previsioni (“solo un cieco può negare che nella Chiesa esiste una grande confusione”, ebbe a dire qualche tempo fa un altro gigante della teologia quale il compianto card. Caffarra), dall’altro fu di conforto nella misura in cui anche la seconda parte, quella positiva, si stava realizzando. Soprattutto per quanto riguarda la fioritura di movimenti ecclesiali nati proprio negli anni del Concilio, che hanno avuto l’indubbio quanto provvidenziale merito di puntellare la Barca di Pietro scossa dalla tempesta post conciliare, e che tuttora rappresentato per migliaia di fedeli un porto sicuro dove maturare la fede.

Un altro aiuto sempre da Ratzinger, stavolta però nella veste di Papa emerito, venne all’Autrice dalla lettura dei famosi Appunti sugli abusi sessuali nella Chiesa. Il motivo è presto detto: con buona pace di quanti ancora indulgono in tesi stravaganti circa l’origine della piaga della pedofilia tra le fila del clero, prima fra tutte la tesi che pone il clericalismo sul banco degli imputati (non vedendo o facendo finta di non vedere che oltre l’80% degli abusi vengono commessi da preti omosessuali, per tacere del tentativo in atto e portato avanti da ben precisi ambienti di sdoganare una volta per tutte l’omosessualità nella morale cattolica), il documento di Benedetto XVI con la chiarezza e la profondità che gli sono proprie va dritto al cuore del problema: la crisi della fede. E’ lì che hanno origine tutti i mali che affliggono la Chiesa. Se questo è vero, è da lì, cioè dalla fede che occorre ripartire. Come? Innanzitutto a livello personale. Tornando, il che implica una conversione del cuore, a credere nell’opera redentrice di Cristo, morto e risorto per noi. Dove quel per noi sta ad indicare l’esigenza, prima ancora che di rinnovati piani pastorali (ciao core), di ripartire da se stessi, dalla propria vita. Per uscire dalla crisi attuale, conclude Brichetti Messori in scia a Benedetto XVI, “non dobbiamo affannarci per adeguare la fede alla modernità…Dobbiamo, piuttosto, muoverci nella direzione opposta: ritrovare, noi per primi, un rapporto intimo con Dio che si traduca in una fede autentica, viva, capace, come ci ha detto Gesù, di spostare le montagne”. Il problema, a ben vedere, è semplice: di fronte alla sfida di un mondo che vive sempre più etsi Deus non daretur, occorre superare la tentazione che sia necessario abbassare l’asticella della fede per riuscire a sopravvivere. Nella convinzione magari che quella cattolica sia una fede “…un po’ esagerata ed esigente (“rigida”, come si dice oggi, NdA) per certi aspetti che la distinguono da altre fedi; che il Gesù dei cattolici sia un po’ troppo ingombrante e sia bene ridimensionarlo, riportandolo magari al livello di altri fondatori di religioni o proponendolo nell’intepretazione edulcorata della Riforma”. Da questo punto di vista anche quelle che giustamente l’Autrice chiama le “solite litanie” sul sacerdozio delle donne, l’abolizione del celibato ecclesiatico, l’apertura benedicente delle coppie samex, del divorzio e del gender, non nascondono “il timore che la fede cristiana non dia la forza sufficiente per vivere le importanti conseguenze morali che da essa derivano?”. La risposta non può che essere affermativa. Ma proprio per questo è quanto mai necessario porsi sulla giusta strada. Il che vuol dire “mirare in alto, cioè non puntare semplicemente a una conservazione della fede cristiana, a salvare il salvabile, ma mirando ad una vera e propria rinascita del cristianesimo”. Fermo restando che la Chiesa è di Cristo, e “certamente non mancherà di provvedere ad essa”.

Abbiamo detto in apertura che Tornare al centro si sviluppa attorno a due grandi snodi nella vita dell’Autrice, snodi che hanno corrisposto ad altrettante momenti di conversione. Ma sarebbe più corretto dire che di snodi ce ne sono tre. Il terzo, quello più intimo ed esistenziale fa come da cornice a tutto il volume, e non a caso lo chiude. Ma qui ci fermiamo, per non svelare fino in fondo l’ultima parte che suona come una bellissima professione di fede.