Monastero WiFi di Roma- Incontro mensile

Lunedì prossimo 5 febbraio vi aspettiamo al Battistero di san Giovanni in Laterano per proseguire il nostro annuale cammino del Monastero WiFi di Roma  di approfondimento della Liturgia della Parola. Ce ne parlerà don Nico Rutigliano. Come sempre Padre Pierluca Bancale, legionario di Cristo, sarà a disposizione per le confessioni. Alle 20.30 momento conviviale con spuntino nei locali adiacenti al Battistero (dove ci lasciano parcheggiare) poi alle 21 in chiesa catechesi, adorazione e compieta finale.

Qui invece la trascrizione della catechesi dell’8 gennaio di don Massimo Cassola, che ci ricorda come ci si prepara alla celebrazione Eucaristica

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Monastero Wi-Fi 8 gennaio 2024

Cappella della Casa S.Maria della Provvidenza (Opera don Guanella)

Catechesi di don Massimo Cassola

“Chi ben comincia.. Preparazione e parte iniziale della Celebrazione Eucaristica”

Chiedere ad un prete come ci si prepara per andare a Messa potrebbe non essere una domanda del tutto innocente, ma sottintenderne un’esortazione a dare delle regole! Magari regole nuove, più teologiche di quelle che conosciamo, ma sempre regole! E se c’è una cosa che i preti di oggi hanno compreso è che l’uomo contemporaneo le regole le vuole solo per darsi il piacere di non adempierle. Ma se è necessario lo faccio: ben vestiti, ben lavati, confessati, ben attenti!

Queste, se ricordate sono le ammonizioni delle catechiste di un tempo ed erano regole di educazione, che volevano formare un atteggiamento esterno di rispetto, di sacralità, che miravano a darci una forma. Peccato che, come ci insegna la Scrittura, spesso l’esterno non corrisponde all’interno e la Messa è un fatto che riguarda più l’interiore dell’uomo che la sua apparenza.

Essendo la Messa uno squarcio aperto sulla realtà di Dio, sulla sua presenza fisica, sul suo desiderio di donarsi a noi in corpo, tutto questo è ben lontano da qualsiasi forma. Prepararsi alla Messa è quindi una questione di sostanza. Cioè riguarda la sostanza della nostra fede. Chi conosce qualcosa di Dio sa che le leggi servono solo ad aiutare la nostra debolezza, ma non potranno mai scaldarci il cuore, mentre f incontro col Signore sì, e per andare ad incontrarlo bisogna averlo in precedenza conosciuto e apprezzato.

Chiariamoci le motivazioni che ci spingono ad andare a Messa per intenderci poi sulle modalità. E’ il desiderio di Lui che ci dovrebbe muovere a partecipare all’Eucaristia. Andare perché spinti da un desiderio. Desiderare di poter stare con Lui. Spinti dalla volontà di conoscerlo sempre più. Vedere il volto del Padre è il desiderio di ogni figlio. Chi non ha conosciuto i propri genitori soffre per tutta la vita, perché non sa dare un volto a ciò cui il cuore naturalmente anela. Specchiarsi nel volto del Padre è l’unico modo per vedere e conoscere anche il nostro volto, che non ha solo un presente, ma ha anche un passato che lo precede. La certezza di riconoscere parte dei nostri tratti nel passato che il viso di nostro padre e di nostra madre ci rappresenta, dà senso al presente e tranquillizza per il futuro. Incontrare Cristo nell’Eucaristia è veder realizzata la parola “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9) e la possibilità di riconoscerci, per la mediazione del figlio di Dio, figli di un Padre del Cielo.

L’inizio della vita di fede è un momento paragonabile a quello in cui un papà guarda negli occhi per la prima volta il suo bambino: i suoi occhi incontrano la retina vergine del figlio e in entrambi il sentimento che nasce è la meraviglia, meraviglia di aver generato, meraviglia di essere venuto al mondo. “Questo stupore eucaristico desidero ridestare con la presente Lettera Enciclica (…). Contemplare il volto di Cristo, e contemplarlo con Maria, è il programma che ho additato alla Chiesa all’alba del terzo millennio, invitandola a prendere il largo nel mare della storia con l’entusiasmo della nuova evangelizzazione. Contemplare Cristo implica saperlo riconoscere dovunque egli si manifesti, nelle sue molteplici presenze, ma soprattutto nel sacramento vivo del suo corpo e del suo sangue”1. Attraverso la mediazione eucaristica i nostri occhi possono immergerci ogni volta nello sguardo del Padre.

Altro punto: cosa ci aspettiamo dalla Messa? Anche l’aspettativa influenza i nostri comportamenti, acuisce o limita i desideri. Adempiere un precetto ci riporterebbe all’osservanza di una legge, non ci convince più, ma cosa “guadagniamo dal partecipare alla Messa”? Lo spazio eucaristico è come un’icona: l’arte della Chiesa indivisa (prima della scissione con la Chiesa ortodossa) non rappresentava gli uomini secondo le loro fattezze terrene, ma secondo il loro archetipo di esseri creati ad immagine e somiglianza di Dio. Pertanto non c’erano ritratti, ma raffigurazioni/rappresentazioni. Così quello che troviamo nell’Eucaristia è qualcosa che deve sfuggire allo sguardo, che non possiamo tenere sotto controllo fino alla fine. I nostri sensi percepiscono una serie di gesti, canti, preghiere, letture, ma sotto queste specie si trova una realtà più profonda, la manifestazione della potenza di Cristo che compie una Pasqua di risurrezione anche nella ferialità del nostro rito quotidiano, per aprire all’uomo quel passaggio verso lui per percorrere il quale Dio ha creato l’uomo e 1o ha amato fin da principio.

Nelle sagrestie antiche c’era appesa una tabella con delle preghiere che il sacerdote doveva recitare prima dell’inizio della celebrazione e alla fine: salmi soprattutto. Fatte quelle fatto tutto si poteva dire, vedi sopra. Io non so come ci si prepara in generale, so come mi preparo io. E 1o faccio ogni volta cercando in me la risposta alla domanda: perché amo Cristo? Solo la risposta a questo interrogativo mi sostiene quando mi vesto coi paramenti e mi consegno faticosamente al centro dell’attenzione di tanti e si apre ‘un palcoscenico chiamato Messa dove io sono, mio malgrado, l’attore principale.

In un certo senso chiedere ad un prete di parlare dell’Eucaristia significa chiedergli di parlare della sua vita; cosi come non si può chiedere ad uno sposato di parlare in generale del matrimonio: tutto quello che dirà sarà filtrato dall’esperienza del suo matrimonio. Appena ordinato ebbi subito in amministrazione due piccole parrocchie di campagna, mentre in una grande ero viceparroco. Preso da deliri restaurativi volli far dipingere, sull’architrave interno della porta della Chiesa, i nomi dei parroci che avevano servito in quell’antico oratorio e feci scrivere: ” Annunciarono la parola di Dio”…e a seguire la lista dei nomi. Venne un anziano sacerdote, guardò e mi disse:

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1 GYPPII, Ecclesia de Eucharistia,6.

“Non hai capito niente, fai cancellare e scrivi: celebrarono l’Eucaristia per questo popolo… e poi aggiungi i nomi…”.

E, vero, non avevo capito molto fino ad allora. Ma bisogna avere pazienza perché i giovani preti, come i giovani sposi, sentono che devono fare tante cose bellissime subito e tutte insieme, ma non sanno come. Si inventano iniziative originali a tutti i costi, per poi, col tempo accorgersi, che è tutto più semplice, più delicato, più naturale, che vivere la vocazione al sacerdozio o al matrimonio significa alla fine cercare di amare e farsi piccoli davanti all’altro. Al tempo di quella scritta infatti il celibato non era un problema, l’ubbidienza una passeggiata, la povertà una meraviglia. Avrei dovuto capire con gli anni che quelle tre promesse erano il vaso di alabastro prezioso che conteneva l’olio di nardo da donare al Signore. Il vaso andava infranto, così come quelle promesse non avevano valore di per sé, ma solo perché offerte con generosità a Dio. Il tesoro non era né il vaso né il contenuto, ma la generosità con cui l’uno e l’altro venivano offerti. Vaso rotto, sprecato, perché il profumo che contiene salga fino alle narici di Dio e ci dia la certezza che quella parola che Gesù disse alla Maddalena che compì per prima quel gesto (Mc 14,9): “In tutto il mondo dovunque sarà predicato il Vangelo, anche quello che costei ha fatto sarà raccontato in memoria di lei”, sarà magari detto anche per noi”.

I1 sacerdote è ordinato per l’Eucaristia e questo non è l’esercizio di un potere, ma semmai la testimonianza del potere che Dio può avere sul cuore di un uomo. Sacerdozio e matrimonio sono gli unici due sacramenti che non si ricevono per sé: non ci si può sposare validamente da soli, non si può essere sacerdote per goderne in modo egoistico, ma solo per servire gli altri. L’Eucaristia è un mistero, ma 1o è come la chiamata al sacerdozio, come la chiamata all’amore, che è il senso di ogni vocazione cristiana.

Il sacerdozio non viene dall’uomo, come l’Eucaristia: è Dio che si concede all’uomo, non l’uomo che convoca Dio sull’altare. Così come Dio chiama l’uomo per amarlo nel sacerdozio e nel matrimonio, così convoca un’assemblea per amarla. Sono due chiamate all’amore che si incrociano: un uomo amato da Dio che può riversare sugli altri l’amore del suo amato e viceversa.

Per poter celebrare, un sacerdote dovrebbe essere sicuro di essere innamorato del suo Dio. Per poter andare a Messa, ogni fedele dovrebbe avere in sé la stessa certezza. E vi prego di credere che questa qualità del presidente, a volte non si capisce dalla sua oratoria, dalle belle omelie che fa o dalla sua presenza all’altare. Rivendico il fatto che non si possa dire di una donna che è una pessima mamma solo perché non sa cucinare, così non si può dire di un sacerdote che è un prete carente perché non sa predicare’ Di una mamma si fa una valutazione complessiva, se proprio si deve farla, ma è meglio di no: ciascuno si tenga la propria madre e onori in lei ciò che Dio ha voluto leggerci affidandole il compito di generarci, anche se ci ha mal nutrito. Così per il sacerdote. Ci sono preti la cui statura non si vede all’altare, ma al capezzale dei malati di notte, chiamati, perché il telefono è sempre acceso, o preti per cui la frase: “Pregherò per te” vuol dire veramente piegare le ginocchia davanti al Santissimo e presentargli i dolori degli altri come fossero i propri.

Prepararsi all’Eucaristia vuol dire prepararsi ad incontrare il signore. Questa espressione a qualcuno può far pensare alla morte imminente e quindi suscitare un po’ di paura. Sono forse quelli che non hanno sperimentato il gusto di pregare non dicendo parole a Dio, ma stando attenti ad ascoltare quello che Dio vuole dire a noi nell’intimità dell’orazione. Chi ha capito che la preghiera è vivere l’intimità con Dio, come il bisogno che hanno a volte gli sposi di stare chiusi da qualche parte loro soli a scambiarsi tenerezze, questi ha capito perché andare e come stare all’Eucaristia’

Avvolti in questo spazio di silenzio interiore e di corresponsione amorosa con il Signore, 1’azione liturgica dovrebbe essere qualcosa che accompagna ma non disturba la bellezza di questo momento personale che si vive, che non ci costringe a “stare nella realtà”, ma che sa svolgersi senza distrarci da Lui.

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Credo che l’atteggiamento giusto ce lo insegnino questi tre brani della, Scrittura: l’episodio di Mosè davanti al roveto che arde, il vangelo della preparazione dell’ultima Cena, l’invito di Isaia a raddrizzare i sentieri di Dio’.

Esodo 3,5: “Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo-sul quale tu stai è una terra santa!”. Davanti a Dio che non si fa vedere ma solo ascoltare, Mosè è invitato a togliersi i sandali, cioè a stare pienamente su quella terra sulla quale si è posata in pienezza la presenza dell’Onnipotente. Dio vuole essere sentito da Mosè, si fa toccare da lui solo per il tramite del suolo su cui entrambi sono posti. Quella terra che l’uomo Mosè calpesta è la stessa dalla quale fu tratto il suo progenitore Adamo ed è la materia con cui Dio si rapporta all’uomo. Non lo trae dall’acqua, dall’aria, dal fuoco, ma dalla concretezza del fango. È sulla terra che l’uomo accoglie la sua salvezza o perde la sua anima, con azioni che riguardano se stesso e gli altri e qui Dio 1o convoca’ Sembra dirgli: stai sulla terra con tutto te stesso se vuoi stare con me.’

La seconda immagine di preparazione sono le ginocchia piegate di Gesù davanti ai discepoli nell’atto di lavare i piedi. “Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò l’acqua del catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto” (Gv 13,3-5).

Se ci pensate quel gesto meraviglioso di Cristo, nella liturgia si fa solo una volta l’anno’ Non ho mai capito perché si propone solo una tantum: quest’uso limitato sembra dire: si possono celebrare centinaia di Messe in dodici mesi, ma- chinarsi sui piedi di qualcuno basta una sola volta l’anno. Quel gesto precede il “fate questo in memoria di me” (Lc 22,19), ne è la chiave ermeneutica, spezza il sigillo al mistero e ce 1o consegna.

E infatti, nel mistero eucaristico non penetra chi non sa mettersi in ginocchio davanti all’altro, farsi servo e rendersi disponibile e prendersi anche il “brutto” del fratello.

E la terza immagine è tratta da Isaia 40,3: preparate nel deserto la via del Signore, appianate nei luoghi aridi una strada per il nostro Dio!

Mi commuove sempre pensare a questo versetto, che ribalta la prospettiva umana’ Noi siamo abituati a preparare le nostre strade, a tracciare una linea che parte da noi e va verso l’altro. Dicevano i latini “Dirige viam tuam”: fatti la tua strada! Qui la prospettiva è rovesciata: dice di preparare noi una strada che va dall’altro verso di noi. Impossibile! Che significa?

Al paese dei miei nonni sull’Appennino alto, quando nevicava tanto si faceva una strada nel deserto di neve: un sentiero che partiva da casa nostra e andava verso casa dei vicini, tutti, anche quelli che non erano i più simpatici, ma per dare anche a loro la possibilità di muoversi in caso di pericolo. Sulla neve si tracciavano non solo sentieri, ma percorsi di comunione e se qualche volta qualcosa di storto restava nell’aria tra le persone, una nevicata mostrava se era rimasto del risentimento o se si era superato tutto: lo rivelava il sentiero che si era o meno tracciato verso la casa dell’altro.

Tracciare un passaggio nel deserto, in qualsiasi deserto, è un moto a luogo, la rappresentazione fisica di un desiderio, il dire: “Io vengo volentieri verso di te e ti faccio una strada perché tu possa raggiungermi”. La strada verso Dio invece è quella per tracciare la quale si parte con la pala in mano da casa nostra, sprofondando nella neve e ci si mette a spalare a partire da casa del vicino fino alla nostra. È un Dio che vuole essere andato a prendere, cercato, il nostro. Ogni tentativo di partire dall’uomo per arrivare a Dio è fallito, dall’erezione della torre di Babele in poi, ma ogni strada che partendo da lui lo ha portato, a prezzo della nostra fatica ascetica, alla nostra quotidianità, è stata benedetta.

Andare a cercare Dio è un atteggiamento spirituale più che un’azione. Tutta la nostra storia spirituale è fatta di incontro e di fuga. Dio si fa conoscere facendo Lui il primo passo, si fa amare e quando ci sentiamo pronti per lui, fugge. Allora i neofiti si disperano e vanno a cercarlo in occasioni forti, in eventi, pellegrinaggi, GMG, santuari, uomini e donne carismatici. In quei contesti, se vi si partecipa per fare la cosiddetta “esperienza forte” del Signore, spesso non si incontra Lui, ma chi per Lui. Egli, se lo decide, può nascondersi da noi anche in quei momenti eccezionali o mostrarsi nella ferialità della nostra vita. Il problema è che noi vogliamo venti impetuosi e per lo più non sappiamo che farcene di brezze leggere.

Si racconta di un anziano rabbi che stava nel suo studio a meditare la Parola quando irrompe il suo nipotino di cinque anni in lacrime: “Nonno, stavo giocando a nascondino con i miei fratelli. Avevo trovato un posto fenomenale. Ci sono stato tanto tempo nascosto e non mi trovavano e quando sono uscito mi sono accorto che loro avevano smesso di cercarmi e se ne erano andati lasciandomi lì da solo”, E il rabbi rispose: “Nipote mio, così fa l’Altissimo, si nasconde per vedere se e come lo andiamo a cercare e il più delle volte rimane deluso perché non ne abbiamo la costanza; quando esce dal suo nascondiglio, noi ce ne siamo andati altrove! “.

Se la Messa non ci dice nulla, non è perché è mal fatta, mal offerta, mal predicata, mal preparata, mal frequentata, ma perché non sono lì per cercare Dio, ma altro. Ad un affamato vero, se si lancia un tozzo di pane sporco, 1o afferra al volo e lo mangia, perché la pulizia, la freschezza, tutti gli attributi migliori del pane vengono dopo la sua sostanza, al bisogno imperioso di nutrirsi. Così è dell’Eucaristia. Disquisire sul come sia celebrata, per esempio, sono ragionamenti da sazi, non da affamati di Dio’

Ma chi ha fame in questa società? Chi di noi conosce il morso delle viscere che dialoga con la mente e gli impone di pensare solo al cibo? Noi abbiamo provato al massimo l’appetito, mai la fame. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati (Mt 5,6).

Cos’è la fame eucaristica? “Sine dominico non possumus “ rispose il martire Emerito al proconsole che gli chiedeva perché avesse trasgredito l’ordine dell’Imperatore Diocleziano di non celebrare l’Eucaristia. Senza riunirci in assemblea per celebrare l’Eucaristia la domenica non possiamo vivere-gli rispose- e per questo furono uccisi nel 304, i 49 Martiri di Abitinia: uomini, donne, tre adolescenti e un bambino. A quell’ordine imperiale il vescovo Fundano aveva obbedito consegnando i libri sacri e divenendo quindi tràditor; ma un semplice prete, Saturnino e la sua comunità non avevano potuto accettare.

L’Eucaristia si dà in modo così alto e irraggiungibile che tutti i tentativi di riduzionismo dei tempi moderni, in cui l’uomo almeno in Occidente, ha risolto il problema della sua fame, non hanno mai potuto averne ragione. Meglio non celebrarla, non riuscendo a diminuirla. Per questo anche oggi molti sacerdoti non celebrano quotidianamente: perché c’è poco popolo, perché c’è poco tempo e molti laici non si pongono neanche il problema di avere questo punto fermo nella giornata. Le giustificazioni sono ottime: l’Eucaristia non è una devozione personale, la celebrazione quotidiana non è un obbligo per i sacerdoti, ma solo un consiglio del Magistero, ecc. Insomma è come dire: se non posso accoglierti in casa con un pasto festivo preferisco che non ci vediamo.

Senza Eucaristia e direi senza Eucaristia quotidiana, un prete non può vivere dando un continuo senso e linfa alla sua vocazione. Anche il suo vivere per la Chiesa dovrebbe sempre ricordarsi che la Chiesa discende dall’Eucaristia, e ribaltando il concetto si potrebbe dire: senza Eucaristia non può esserci una Chiesa che vive.

Un giorno vissuto nel matrimonio senza un bacio tra gli sposi, sarà un giorno come tanti che non lascerà un ricordo, ma uno vissuto nell’unione dei corpi sarà sempre un giorno speciale, un giorno che rimarrà fisso nella memoria perché magari ha avuto come effetto il concepimento di una vita. Così un giorno senza Messa è un giorno senza poesia, senza mistero, senza nutrimento per il cuore.

Ho conosciuto un anziano sacerdote albanese imprigionato dal regime per anni, che celebrava clandestinamente usando come calice il cavo di una mano, poche gocce di vino, poche briciole di pane. E ancora i sacerdoti martiri e confessori della fede imprigionati dal regime stalinista celebravano nelle carceri con una corda al collo come stola e sul petto di un altro sacerdote come altare. Solo così le loro anime, nutrite dal pane eucaristico, non hanno ceduto alla bruttura, alla violenza, non sono state vinte, ma associate al trionfo di Cristo su tutte le morti,

Un prete viene fatto dall’Eucaristia che celebra e un popolo pure. L’ascolto continuo della poesia dei Salmi, la Scrittura che con gli anni diventa nota, amica, capace di parlare alla vita, irrompe nell’interiore degli uomini e delle donne aperte al mistero e li cambia dal di dentro, raffinandone le parole, i pensieri, i gesti. Alla fine della vita di uomini e donne eucaristici il mistero è svelato loro, gli appartiene, perché loro appartengono fino a in fondo a quel Mistero.

Così, il poeta rumeno Virgil Gheorghiu, figlio di un sacerdote ortodosso descriveva suo padre: Mio padre era un uomo molto esile… rassomigliava più ad un adolescente che è cresciuto troppo in fretta che ad un adulto, soprattutto ad un padre. Mi dava una tale impressione di immaterialità e di fragilità che ho sempre creduto, quando ero piccolo, che un soffio di vento un po’ più forte del solito avrebbe sollevato da terra mio padre per portarlo in cielo; le pieghe della sua tonaca si sarebbero mutate in grandi ali, come le ali multiple dei serafini. Avevo sempre paura di perderlo così e di restare orfano di padre. Con il tempo mi sono spiegato perché, ai miei occhi, mio padre era piuttosto un’icona-cioè una creatura celeste-che un abitante della terra. La spiegazione era molto semplice. Tutti sanno bene che i perfetti servitori, quelli che servono nelle dimore regali e che vivono continuamente nell’intimità dei grandi signori finiscono per imitarli… è appunto ciò che è successo al mio povero padre, che era il fedele servitore di Dio. Il suo sguardo angelico, la sua voce celeste e dolce, la sua andatura immateriale, come il volo degli angeli, tutte queste cose che facevano di lui piuttosto una creatura celeste che terrestre, sono gli attributi di Dio. Del suo Signore.

Mio padre si svegliava alla presenza di Dio. Si coricava alla presenza di Dio, mangiava alla presenza di Dio. Non aveva altra preoccupazione sulla terra che servire il suo Signore. Non aveva occupazioni sue, opinioni sue, progetti suoi. Non aveva che le opinioni di Dio, i pensieri di Dio e non lavorava che secondo ciò che Dio gli ordinava di fare. Era normale. Nessun servitore fedele ha delle occupazioni proprie; lavora unicamente per il suo padrone2.

Che lo Spirito Santo ci doni insieme a questo nuovo anno uno zelo nuovo, un desiderio rinnovato di servire e amare, una fame profonda della comunione coi fratelli e dell’Eucaristia.

 

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2 V GHORGHIU, Dalla venticinquesima ora all’eternità, San Paolo, 21.