Riflessioni su Eucarestia, Amazzonia e celibato

 

foto @AciPrensa

di Costanza Miriano

Qualche giorno fa ero a messa alla Transpontina, una chiesa in via della Conciliazione a pochi passi da San Pietro. Ogni tanto entrava qualche persona con quel copricapo di piume che nel mio immaginario era degli “indiani” dei film di cow-boy e che invece ho scoperto essere tipica anche dell’Amazzonia. Anche i lineamenti del viso e le caratteristiche fisiche facevano pensare che si trattasse di un gruppo di indigeni.

Durante la messa entravano, stavano qualche momento, uscivano. Lo hanno fatto a più riprese. Io ho sperato che fossero in chiesa al momento dello scambio della pace  così avrei stretto le loro mani in segno di accoglienza, invece quando ho alzato la testa dopo la consacrazione non c’erano. Poi sono rientrati e poi ancora usciti. Quando la messa è finita li ho incrociati che rientravano in chiesa, questa volta in gruppo, tutti insieme. Portavano canoe, strumenti musicali credo, abiti tipici. Una signora sorridente mi ha chiesto di rimanere per un “momiento de spiritualidad” ma proprio non potevo. Però l’ho trovata una cosa bella, che mi invitasse, ho pensato che noi occidentali nelle chiese dovremmo imparare da loro, dalla loro accoglienza, dai sorrisi e dalla capacità di accogliere chi ti sta vicino anche se non lo conosci (è una mia fissa, e anzi prego che questo succeda anche al Monastero wi-fi del 19 ottobre a San Paolo: che nessuno, anche se viene da solo come succede a tanti, si senta isolato. Salutiamo il vicino di sedia, chiediamo chi è e come sta, mi raccomando!). Dico questo perché si capisca che davvero non ho nessun desiderio di giudizio, non credo che noi cattolici occidentali e di lunga tradizione siamo superiori a nessuno, anzi.

Ho letto però sulla Bussola che si sono fatti strani riti sincretistici nella chiesa dalla quale ero appena uscita. Non spetta a me giudicare neanche questo, ma ai pastori e spero che lo facciano perché la confusione è tanta (e certo non posso fare a meno di notare con dolore che in certe chiese, in certe città, non hanno accolto incontri di preghiera del tutto ortodossi, ma comunque si sa che la Chiesa non è un monolite, ci sono tante sensibilità e va bene così).

Quello su cui rifletto, e ho cominciato a farlo quel giorno, ben prima di leggere sulla Bussola in cosa sarebbe consistito quel “momiento de spiritualidad”, è che quelle persone non desideravano affatto ricevere il corpo di Gesù, perché durante la messa se ne stavano fuori ad aspettare che finisse. Ovviamente non si può generalizzare, ci sarà sicuramente chi desidera ricevere più spesso l’eucaristia in quelle regioni, però quello che ho visto è stato questo. Gente che quando poteva prendere l’eucaristia stava fuori dalla chiesa, e poi entrava per fare una preghiera tribale. Quindi dire che per aiutare l’Amazzonia bisogna ordinare viri probati è del tutto pretestuoso.

Cosa fare? Cura delle persone, sì – la mostra nella chiesa esibisce foto impressionanti, con bottiglie piene di un’acqua che sembra succo di albicocca, e invece è acqua, arancione, inquinata, imbevibile – che la Chiesa dica parole serie sullo sfruttamento, benissimo; che metta in guardia anche, come ha fatto il Papa, da una protezione del territorio talmente esasperata da mettere in pericolo gli uomini, ottimo. Annuncio di Cristo in modi creativi, rispettosi della cultura locale, giusto. Soprattutto annuncio di Cristo con l’amore, e “se serve anche con le parole” come dice san Francesco.

Ma permettere a dei viri probati di fare i sacerdoti non mi sembra affatto corrispondere alla priorità dell’Amazzonia: se avessero tutto questo desiderio di eucaristia non entrerebbero in chiesa alla fine della messa. Roma è piena di messe, dovremmo trovare indigeni inginocchiati a fare la comunione in ogni parrocchia. Si può, anzi si deve dare aiuto, morale, spirituale, tutto quello che è possibile. Ma permettere di celebrare l’eucaristia a viri probati mi sembra andare esattamente nel senso opposto: serve l’annuncio, la formazione, servono persone più formate, non meno. E non è neanche quello che chiedono gli indigeni, a quanto ho potuto vedere io.

Il sospetto che questa situazione contingente possa essere usata come grimaldello da qualcuno dentro la Chiesa è legittimo. Sulla questione del celibato ci sono pareri molto più autorevoli e accreditati del mio, ma vorrei dire solo una cosa. Anche quelli che sostengono il celibato, tra noi semplici fedeli, non sempre lo fanno, almeno a quanto sembra a me, per il motivo giusto. Non è una questione di avere tempo, il senso del celibato non è da cercare nel fatto che chi ha una famiglia non ha tempo per la parrocchia, che è l’obiezione più frequente. Il celibato è moltissimo, moltissimo di più che liberare tempo. Il celibato è segno e profezia di una sponsalità con Dio, è la fecondità della castità, è stare in un rapporto diverso con Dio, non di quantità ma di qualità. È la libertà di permettere a Dio di regnare completamente, senza i vincoli che il cuore di noi sposati e aperti alla vita abbiamo. Viene il dubbio che chi lo considera irrilevante o comunque non dirimente – e non credo sia il Papa – consideri irrilevante Dio.